Firpo tra realismo e utopia di Piero Gobetti

Firpo, tra realismo e utopia Dagli studi sul pensiero politico all'impegno civile dei nostri giorni Firpo, tra realismo e utopia Una lunga militanza nei secoli: dal Rinascimento agli enciclopedisti, a Piero Gobetti e Luigi Einaudi Le «prediche inutili» di un piemontese testardo «Un bel giorno, o un brutto giorno, morirò e sarebbe un peccato che una biblioteca come questa, organica, costruita con velleità di completezza, andasse dispersa». Così Luigi Firpo, il grande studioso del pensiero politico del mondo moderno che ci ha lasciato dopo una sofferta agonia, confidava a un giornalista due anni fa, in coincidenza con l'annuncio della sua donazione, destinata a preservare quella straordinaria raccolta, innestata nella «Sua» Fondazione Luigi Einaudi, cui dedicò tanta parte della vita. Firpo aveva lavorato a quella sua «unica» collezione «con testardaggine piemontese» (per usare le stesse sue parole). Senza particolari mezzi di finanziamento; un professore che si era fatto tutto da sé, e aveva percorso i vari e difficili gradi della carriera accademica (nell'Italia di ieri); proveniente da una famiglia della piccola borghesia torinese — lo stesso ceto da cui era emerso Gobetti — che gli aveva lasciato sì e no quindici libri, sui quali tornava commossa e accorata la sua memoria. «Soggetti garibaldini, testi di socialismo umanitario, i classici italiani del Notati...», racconterà una volta. Aveva cominciato nel '45 da zero dopo che i bombardamenti aerei di Torino avevano distrutto anche il piccolo nucleo di biblioteca — circa duecento volumi — che il giovanissimo docente all'università, non ancora cattedratico, aveva raccolto in quel periodo. Era aiutato sempre da una fortuna che per lui — studioso profondo di Machiavelli — equivaleva a «virtù». Era stato incoraggiato, negli anni diffìcili del dopoguerra, da alcuni colpi buoni. Lo raccontava nella sua ricca, prorompente e indimenticabile conversazione. Aveva acquistato per cinquecento lire da un libraio di Bologna il «De rege» del gesuita Juan De Mariana, edito a Toledo nel 1599. Causa di quella valutazione irrisoria: un errore. L'interpretazione della parola «hispanus» da parte dell'antiquario. E qualche anno più tardi aveva comprato per duemila lire la prima edizione del «Leviatano» di Hobbes, uno dei classici del pensiero politico moderno (si era fermato presso la bancarella di libri usati davanti alla Biblioteca nazionale di Roma, bancarella generalmente di gialli, a cento lire l'uno; aveva individuato questo dorso marrone che emergeva singolare in quello sfondo. Accortosi del colpo aveva subito comprato tre gialli per depistare il venditore: duemilatrccento lire. «Miporto a casa un tesoro»). Li considerava libri suoi. «E questi quarantamila volumi sono un 'opera "mia" come le altre che ho scritto» amava dire. In realtà era il simbolo di una visione, di una laica visione della vita. Una tensione instancabile nel raccoglierli; l'altalena fra la speranza di acquistarli e il timore di arrivare troppo tardi; la sofferenza spesso per la difficoltà di sopportare quei costi. Cento cataloghi al mese: li compulsava c li guardava come una specie di guida ai tesori nascosti. 1 libri occupavano tutte le stanze della casa, non risparmiavano neanche il salotto da pranzo. Investivano l'uomo nella sua totalità; e poche biblioteche hanno risposto così integralmente alle passioni, agli orgogli, alle ostinazioni, alle grandezze e anche agli esclusivismi dell'uomo. Firpo era impegnato con passione sacerdotale (e — ripeto — laicamente sacerdotale) nell'opera di costruzione di una disciplina che prima di lui esisteva in modi parziali e discussi, la «Storia delle dottrine politiche». La sua biblioteca — così strettamente e intimamente affiancata alla sua opera di filologo, di analista, di storico — era quindi la convalida di una tesi esposta a molte obiezioni: che esistesse una storia del pensiero politico separabile da quella più generale del pensiero filosofico o del pensiero umano tout court. Croce non l'aveva mai autorizzata, né gli studiosi di osservanza crociana si erano disco- stati dal maestro. Era quella una storia entrata in forme marginali od episodiche in quelle facoltà di Scienze Politiche che all'indomani della Liberazione erano state contestate nella loro legittimità (perché si dubitava che esistesse una scienza politica, una filosofia politica: dubbio che in Croce era più di un dubbio). Firpo: gagliardo combattente per la sopravvivenza di quelle facoltà, a cominciare dalla sua Torino, dove insegnò per quasi quarantanni. E im¬ pegnato a ricuperare tutte le categorie della letteratura politica che per secoli si era unita con la letteratura ecclesiastica o anti-ccclcsiastica. //pensiero politico si chiamava non a caso la sua rivista prediletta: la rivista che egli aveva portato avanti in tutti questi decenni con passione ostinata, con risultati europei. E all'indagine sul pensiero politico del Rinascimento, della Riforma e della Controriforma, aveva dedicato i suoi studi più minuziosi e sofferti, le sue ri¬ cerche più originali, i suoi scavi più importanti. Campanella, i riformatori italiani, la ragion di Stato. Con una certa consanguineità che lo univa al Guicciardini, anche come osservatore distaccato della vicenda storica: in Firpo prevaleva un pessimismo sulla natura umana, pessimismo che aveva radici rinascimentali. C'è questo lontano schizzo di Guicciardini, comparso in un saggio di quarantanni fa sul «Pensiero politico del Rinascimento e della Controri- forma», che vale la pena di essere ripreso in mano. L.ia distinzione dal Machiavelli e qualcosa di più. «Guicciardini ha in comune con Machiavelli l'attitudine al freddo calcolo, il forte intuito politico, proprio di tutti i maggiori storici toscani del secolo, e il realismo, e il pessimismo, e la malinconia; ma in realtà è uomo d'altro stampo perché è assai meno disincantato e freddo e sente più profondamente il peso dei valori morali, della famiglia, dell'onore, della religione...». Amò gli utopisti, amò gli enciclopedisti, amò tutti quelli che anticipavano sulla storia vivente. Fu di casa con Cesare Beccaria, il più alto spirito dell'Illuminismo lombardo: c stava dando un contributo essenziale all'«opcra omnia», curata da Mediobanca. Ma fu anche di casa, gobettianamentc, con Vittorio Alfieri: il presidente instancabile di quel Centro di studi alfìcriani di Asti che solo grazie alla sua passione inesauribile di «organizzatore di cultura» riuscì a superare le tante difficoltà e i tanti abbandoni di questi decenni. Scrittore di vena nativa era trapassato senza soluzione di continuità dalla cultura al giornalismo come era nella tradizione della grande storiografia italiana. Collaborava alla Stampa dal 1962 e aveva raccolto, presso il pubblico del quotidiano torinese, gli stessi successi che aveva riscosso nel mondo degli studi. Instaurando un dialogo diretto col lettore (soprattutto nei suoi «Cattivi pensieri», riuniti anche in volume). Affrontando sempre, con assoluta spregiudicatezza, con originalità di vedute, i temi più scabrosi della vita moderna, senza tabù, senza inibizioni, senza manicheismi e senza intolleranze. In uno stile sempre adatto a cogliere quello che al lettore piaceva di sentirsi dire. Dal giornalismo Firpo era arrivato, quasi naturalmente, alla politica. Indipendente nel partito repubblicano aveva combattuto a Torino nel '79 una battaglia elettorale che lo aveva avvicinato alla vittoria. Furono quelli, dal '79 all'87, gli anni del nostro rapporto più stretto. Come consigliere di amministrazione della Rai dimostrò cosa voleva dire l'indipendenza, lo sprezzo del conformismo, il richiamo a una concezione severa, non lottizzata, dell'informazione e della comunicazione televisiva. Nel periodo di maggiore smarrimento della coscienza nazionale, fra gli scandali della P2 e gli altri, egli dette un contributo essenziale battendo sul tasto della moralizzazione con quell'efficacia e quella immediatezza che ne facevano uno scrittore di straordinaria eco nell'opinione pubblica. Era entrato alla Camera da un anno e mezzo e aveva tratto dalla breve esperienza parlamentare preziosi spunti per i suoi diari segreti, per le sue accorate riflessioni sulla decadenza di un certo costume civile e politico, di cui da tempo denunciava l'inarrestabile corso. Era un uomo libero, che non riconosceva coattive o soffocanti discipline di partito (e perciò si trovava bene nel pri, figlio dell'intuizione risorgimentale della vita). Ma questo grande storico delle dottrine politiche, questo filologo eminente cui non sfuggiva un solo tassello del pensiero dominante del nostro tempo, avvertiva un fondo di amarezza e di distacco dalla società circostante. Era il suo fondo più «piemontese», commisurato allo scabro gusto della sua terra. Il Piemonte: la grande passione della sua vita di storico c di studioso. Un Piemonte che stava a metà fra Burzio e Gobetti. E in fondo al quale affiorava una coscienza religiosa e riformatricc, con una vena giansenista, un'ansia laica di riscatto dalle debolezze e dalla corruzione dei tempi. I suoi «Cattivi pensieri» tendevano ad assumere toni di predica, accenti quasi savonaroliani: strumenti del suo magistero laico. Con la coscienza che quelle prediche erano comunque — come aveva anticipato il «suo» Luigi Einaudi — prediche inutili. Giovanni Spadolini Luigi Firpo legge accanto a una finestra del suo studio che si affaccia sulla collina e su Tori

Luoghi citati: Bologna, Italia, Piemonte, Roma, Toledo, Torino