AMBASCIATORE NELL'ITALIA UNITA di Carlo Carena

I bisonti di Marsh AMBASCIATORE NELL'ITALIA UNITA I bisonti di Marsh Il primo ambasciatore degli Stati Uniti presso il Regno d'Italia, giunto a Torino nel giugno del 1861, il giorno stesso delle esequie di Cavour, non era un diplomatico di carriera, ma un avvocato e scienziato del Vermont, George Perkins Marsh. Seguirà il governo a.Firenze e a Roma, portandosi dietro la famiglia, la biblioteca e un'attenzione fedele per il mondo intero e per il nostro Paese, lontano e diverso ma molto legato al suo. Sarà Marsh a condurre fra l'altro, già nel '61, la delicata e infine arenata trattativa per il passaggio di Garibaldi negli Stati Uniti come generale dell'esercito nordista. La sua è una figura complessa. Nasce nell'America di Franklin e di Ralph Waldo Emerson, di Humboldt, di Thoreau e di Melville. Emerge da un romantico intreccio di naturalismo e di filologia, dalle soste stupite sui grandi orizzonti che la scienza va schiudendo e dalla sperimentazione dell'agronomo nelle foreste degli Stati e nelle lande della Turchia o nelle bonifiche della Toscana, in una continua dialettica che dall'osservazione della storia e della natura diventa filosofia della vita universale. Le sue opere zoologiche, linguistiche, archeologiche, i suoi articoli e conferenze rimangono confinati alla storia delle scienze o della cultura; ma da una coscienza non solo scientifica nascono le preoccupazioni e l'opera più nota di Marsh, che si spingono ben oltre il suo pubblico e il suo tempo immediato. Lo prova la riproposta odierna di L'uomo e Ut natura da parte di Fabicnne Vallino in un grosso volume (ed. Franco Angeli), con la traduzione italiana ottocentesca e ampi, informatissimi apparati della curatrice. Le prime inquietudini, o una curiosità assillante, erano nate nel giovane Marsh già a contano col paesaggio del suo continente, pur quasi vergine ancora. Il legname abbattuto che flottava lungo i grandi corsi d'acqua, il propagarsi dell'allevamento del bestiame o la strage dei bisonti nelle praterie, l'infiltrarsi della ferrovia nella boscaglia impenetrabile facevano scattare in Marsh e in qualche altro preveggente della sua cerchia non un puro allarme emotivo ma una riflessione acuta e globale, Thoreau lasciava la città per sperimentare la natura e rivivere un'armonia liberatoria fra il regno dell'inanimato o del bruto e quello dell'intelligenza. Marsh scorge in questo rapporto fin dalle sue origini non un'armonia ma un contrasto. 11 più diffuso sogno romantico e illuminista del buon selvaggio e del paradiso terrestre, in Marsh non esiste, o è ancora più remoto, cessa già col versetto 26 della Genesi quando, fatti i cieli e la terra dei vegetali e degli animali, Dio v'immette l'uomo. Cominciano allora due vicende parallele. Contemporaneo o discepolo alla lontana di Kant e Goethe e Lamarck, figlio anche qui della propria età, Marsh ha del mondo una concezione dinamica, intreccia geografia e storia in un processo di modificazioni continue che dapprima hanno forse modellato un paesaggio splendido e un habitat ideale per gli elementi della vita, poi però vedono sprechi pazzeschi e mostrano alterazioni pericolose. Un processo iniziato con l'introduzione della pastotizia e dell'agricoltura, poi proseguito senza più soste, se mai con fasi alterne e con accentuazione progressiva in quell'aurora della società industriale. Gli allarmi, oggi, a centotrent'anni di distanza, ci sembrano agghiacciantemente di un'ingenuità ridicola. Ma sono già rutti li quelli che rapidamente divennero non più le fisime di un pedante o lezioni severe sui meccanismi e sull'enormità capillare delle nostre azioni ma reali questioni di vita o di morte. Quando Marsh lamenta la distruzione massiccia delle balene, il suo non è il rimpianto zoofilo per il povero animale o lo sconforto per la sua estinzione; è la spiegazione allucinante delle sue connessioni e moltiplicazioni, degli effetti collaterali che non si possono nemmeno calcolare ma solo constatare a intervallo di generazioni. Omero, descrittore ino¬ bliabile dello spettacolo marino in tutte le sue fasi, stati e colori, non accenna mai al fenomeno della fosforescenza delle acque: forse erano effettivamente diverse, per qualcosa che vi è poi intervenuto. In uno stagno del Vermont l'otturazione di un canale aperto per il movimento di una segheria ha ampliato la massa delle acque a cui attingeva, e le trote si sono enormemente moltiplicate e ingrandite: e che ne sarà degli alberi circostanti? La foresta è la grande zavorra equilibrante del nostro pianeta, cui Marsh dedica tutta la sua passione intellettuale e alcuni dei suoi pochi consigli espliciti. I piccoli fenomeni dello stagno di casa sono moltiplicati enormemente dagli incendi, dalla raccolta del fogliame, dalla potatura e ovviamente dal disboscamento. La neve che copre le pinete boreali o la resistenza di quel cammello erboreo ch'è il pino mediterraneo assicurano i veri, grandi ricambi, o la creazione stessa della vita. L'albero è, per Marsh, il gigante ostacolatore e alleato dell'uomo. Alle pagine e alla filosofia di Marsh presiede l'idea dell'uomo come un elemento estraneo, fondamentalmente e inevitabilmente perturbatore nel regno naturale con la sua sola ed esigente presenza, un essere che vi si trova ma non gli appartiene: «Ovunque egli posi il piede, le armonie della natura si cangiano in discordia». L'uomo è autore di grandi e deliberati rivolgimenti, e di effetti casuali ancora più grandi. Per- ciò di tutti gli esseri organici, «l'uomo dev'essere considerato come forza essenzialmente distruggitrice», per le necessità del suo stesso progresso, ch'egli comunica anche agli animali e ai vegetali che lo attorniano e lo servono, mentre ha contro di sé tutti i processi naturali, l'avversità di un mondo che per sua natura non è minimamente fatto per lui: «Costretto ad essere padrone per non essere schiavo», e tanto più costretto a imporre il suo dominio quanto più vuole e deve procedere per la propria strada. George Perkins Marsh, questo energico figlio del Nuovo Continente ottocentesco, risulta alla lettura odierna uno spaventoso pessimista. Magnifico ecologo, non sogna certo il primitivo teatro dello scontro dei dinosauri e dei cataclismi tettonici o l'immacolatezza di una solitudine planetaria; ma registra senza scampo l'alterazione del nostro pianeta, che nella sua prospettiva non può non esser fatale, poiché l'entità della trasformazione già operata risulta quasi irricuperabile e comunque oggetto di un restauro solo in periodi incommensurabili e d'una cautela nei processi quasi irraggiungibile. Il quadro iniziale di L'uomo e la natura è una descrizione brillante delle plaghe comprese nell'antico impero romano, complete di ogni prodotto della terra, dell'acqua e dell'aria, di climi vari e benefici, dalle rive selvose del Baltico alle sponde uvose del Reno, alla Sicilia e alla Libia feraci di grano e alla Spagna e alla Grecia di ulivi e di viti, e anche là ove la natura fosse incolta, con un senso di bellezza e di quiete nel paesaggio; raffrontato con l'abbandono di una parte di quelle terre da pane dell'uomo moderno o con la loro depressione e precarietà, diventa la parabola di un leviatano ch'è fuori di noi, e della responsabilità anche di un minimo e solo gesto che compiamo in questa natura la quale, a differenza del pretore, de minimis curai. Già traspaiono fortissime tutte le contraddizioni del pensiero ecologico moderno, le impasses in cui va a cacciarsi, tanto maggiori evidentemente quanto maggiori sono il rigorismo e la capillarità. Ogni prospettiva storica dovrebbe essere preclusa a questo nemico persino di Rousseau, che invece si salva non lanciandosi in querimonie ma col suo senso grandioso della natura. Carlo Carena