Diavolo di un Rushdie di Furio Colombo

Diavolo di un Rushdie Il caso dello scrittore anglo-indiano: per quali motivi ha scatenato il furore dei fondamentalisti islamici, le semplificazioni delle masse e un avvertimento per il mondo Diavolo di un Rushdie NEW YORK — CI sono tanti percorsi per affrontare questa storia: la condanna a morte dello scrittore Salman Rushdie, colpevole di avere scritto il romanzo «77ic Satanic Versesi. Ognuno di questi percorsi è triste e finisce male, anche se Rushdie per fortuna Vive in Inghilterra e non dovrà scontare la pena che gli hanno inflitto gli ayatollah iraniani. Lo è non solo perché si tratta di un libro, non solo perché si parla di libertà e non solo perché la tensione scatenata nel mondo dal fondamentalismo continua a salire. Ma perché «l'altra metà del mondo», la parte moderata, ragionevole e civile, non sembra capire davvero quel che è successo, e lo vede in due modi. Con viltà, defilandosi (noto sui giornali americani che nessun amico di Rushdie, negli Usa, vuole essere citato per nome. E si tratta di scrittori, letterati, critici). Oppure ricorrendo alle vecchie immagini care a Lawrence d'Arabia: immaginando un mondo di teste calde alle quali prima o poi insegneremo a vivere. Primo percorso. Perché? Che cosa c'è nel libro che ha scatenato le ire delle folle musulmane? Ora che le prime copie di Viking Press sono disponibili in America credo di poter lievemente smentire l'autore. Lui ha detto «niente». Io direi, ma stando dalla sua parte, «tutto». Fra queste due parole sta una concezione della letteratura e una concezione del mondo. In letteratura Rushdie, con la sua splendida e febbrile lingua che incamera e restituisce ogni frammento di esperienza e di vita dalla lingua oxoniana ai dialetti delle stradine «asiatiche» di Londra viene dopo James Joyce di cui si considera discepolo. Ma Joyce, come ha dimostrato il suo rapporto con il cattolicesimo, non è un maestro affidabile, la sua febbre di parole che spingono immagini e fanno esplodere situazioni false e vere, interiori e reali, di cronaca e di delirio, non può essere fermata e ispezionata dai posti di blocco delle intelligenze burocratiche. E qui sta il cambiamento del mondo di cui Rushdie non ha tenuto conto. Primo errore: lui dice «ma l'islamismo che io ricordo era cosi approssimativo, così dolce-. Salman Rushdie era il ragazzo ricco di una famiglia mercantile che lo manda a studiare a Londra, dove diventa colto e raffinato auto- re di best sellers in lingua inglese. L'islamismo che oggi qualcuno da noi chiamerebbe «di base», Salman Rushdie non lo ha mai visto. Eppure aveva già scosso il suo paese ai tempi di Kipling, aveva già travolto l'Africa del Nord e il Medio Oriente al tempo del Mahdi, e almeno un altro personaggio raro e improbabile come lui, il romanziere egizianomusulmano Naguib Mahfouz' (premio Nobel dello scorso anno) ha avuto uno dei suoi primi libri letteralmente cancellato, e la sua carriera di scrittore in lingua araba quasi stroncata da una condanna religiosa. Le ragioni? Le stesse. Usare il nome del Profeta, usarlo in modo peggiorativo, attribuirgli donne e vicende che non sono quelle delle scritture, citare il nome di Satana accanto al nome di Dio. Non so come Mahfouz sia caduto nella trappola e non so come si sia salvato. Ma non credo che Rushdie se ne libererà invocando il fatto che il suo libro è un delirio, molti dei suoi racconti sono un sogno, e proponendo un estremo espediente poetico («io voglio rivalutare 11 linguaggio negativo, il pensiero cattivo, il lato sbagliato della vita, mostrando che è ambiguo, e che non si può parlare del bene senza provare a guardare il mondo dalla parte del male»). La miscela esplosiva del fondamentalismo (che è islamico ma anche cristiano, benché il grado di febbre appaia temporaneamente diverso) è formata da una parte di furore che ha altre ragioni (solitudine, impotenza, esclusione), una parte di ignoranza (che altri coltivano volentieri) e una parte di comunicazione globale, che induce tutti noi, dal salotto alla piazza, a comportarci nello stesso modo: parliamo di ciò che non conosciamo, sappiamo subito pochissimo di tutto e, se necessario, scendiamo subito in piazza. Secondo percorso: consoliamoci e pensiamo «come è lontano il mondo dei tumulti pakistani, delle maledizioni iraniane». Non credo che sia possibile, non solo perché viviamo in un pianeta talmente stretto, che diversi professori della Columbia University in questi giorni stanno attenti a parlare dopo aver visto quel che è toccato a Rushdie. Ma anche perché le due parti del pianeta, quella dei fanatici e questa, dei razionali che frequentano librerie e case editrici, non sono così diverse e lontane come vorremmo credere. Le ragioni non sono certi aspetti di tenue affinità (i «nuovi cristiani» che si lanciano contro il film di Scorsese, il Papa che condanna il libro di Eco, l'Osservatore Romano che lo stronca, quando, potevamo pensare, il pensiero cristiano avrebbe dovuto avere le mani piene di altre «priorità»). Le ragioni sono altre. L'involucro letale, inquinante, della semplificazione in luogo del serio e coraggioso confrontarsi con i problemi, è un male che viene dal livello alto della «televisione matura», dall'aver fatto il pieno (male, in modo imperfetto, distorto) con le comunicazioni di massa; un problema che sta esplodendo al centro della parte ricca, evoluta del mondo. In questo mondo di semplificazione basta usare certe parole chiave (aborto, contraccettivi, natalità) per scatenare folle, scontri, risorse, erigere barricate e accampamenti, fare scontrare masse che avrebbero tutte le ragioni per vivere insieme e cercare insieme vere soluzioni a veri problemi. Ma la parola chiave più tremenda è diventata «religione». Automaticamente si pensa che sia un bene e in suo nome si tollera molto. Per esempio, il mondo civile non è veramente insorto contro gli ayatollah iraniani, in parte fingendo «compatimento», in parte per non toccare una questione spinosa, e anche ricca di analogie, con altre religioni, in altre e meno remote parti del mondo. Una controprova. Immaginiamo per un momento che un regime dell'Est, sicuramente ateo, lanci a uno scrittore dell'Ovest una simile maledizione e una così diretta condanna. Salterebbe in piedi la platea del mondo, giustamente, in nome di tutti i principi. Nel nostro caso, ho notato che non è venuto in mente a nessuno di convocare il Consiglio di sicurezza dell'Onu. L'Iran è un Paese membro e la «con danna» di Rushdie è un atto formale, ufficiale di quel Paese, un grande invito al terrorismo. Come minimo si poteva chiamare l'ambasciatore di quel Paese, consegnargli una nota. Non lo ha fatto, mi pare, neppure l'Inghilterra. Terzo percorso: Si dice: c'è un ritomo di oscurantismo, e questo ritorno è più intenso e febbrile nella parte in ombra del mondo. Vero e non vero. Con la vicenda di Salman Rushdie, il mondo povero, squilibrato dal suo furore (troppa gente con troppo poco peso, senso e risorse), affezionato al suo solo strumento disponibile (il gesto simbolico), ha mandato il suo primo avvertimento planetario. Possiamo evitare di agganciare un livello di vita all'altro. Ma non possiamo tenerli lontani e illuderci di non pagare le conseguenze di tanto disordine. Basta un libro a Londra per mettere a fuoco il Pakistan. Non qualunque libro, per ora. E neppure un libro scelto a caso. In questo libro ci sono certe ragioni (il nome del Profeta, le donne del Profeta, le immagini del peccato, le deformazioni e le messe in ridicolo della Scrittura, l'uso della parola spregiativa «Mahound» quando si parla di Maometto) e certe facilitazioni (Rushdie è musulmano, come i rivoltosi di Kara-. chi e i preti di Qom). Ma le accuse al «diavolo americano» con cui pure né Rushdie né il libro hanno alcun rapporto, dovrebbero servire da rivelazione: qualunque scusa è buona per la semplificazione al servizio di una causa o di una crociata. Se c'è una conclusione è che il caso di Rushdie non è un soprassalto, un annuncio, una rivelazione. E' qualcosa che va molto al di là del gesto folle dell'ayatollah. Si vede qualcosa che già c'era e non era stato notato. E quel che si vede non è piacevole. C'è un solo mondo, e quel mondo è squilibrato e in pericolo. Furio Colombo La protesta contro il libro di Rushdie nella piazza di Bradford (Foto Asadour Guzelian, da «The New York Times magazine»)