Due no non fanno sì

Due no non fanno sì LA LINGUA CHE PARLIAMO Due no non fanno sì Ricevo con quasi due mesi di ritardo la lettera di un lettore di Milano, che si presenta come giornalista e mi rivolge un confidenziale: 'Caro Bolelli». Riferendosi ad un mio articolo del 31 dicembre scorso sulla Stampa, in cui era scritto: «... perfino ad una superficiale lettura dei giornali, ci accorgiamo che dell'italiano a nessmio importa nulla", commenta: «Vale a dire che, interpretando la sua frase sulla base di una corretta conoscenza dell'italiano, a tutti importerebbe almeno qualcosa dell'italiano». Chiama poi la mia frase -nino svarione» e «proprio in un articolo che per definizione svarioni non ne dovrebbe contenere affatto», ed aggiunge: «Prima di licenziare i vostri pezzi dovreste passarli al microscopio, anche se il cenone di Capodanno incalza; o altrimenti rimandarli all'anno nuovo». Neanche a farlo apposta, il sottotitolo di un mio libro (Parole in piazza) suona: «Avventure e disavventure di vocaboli vecchi e nuovi al microscopio del linguista». Ma, prima di rispondere come si conviene, sgombriamo la faccenda di Capodanno e dell'anno nuovo. Da tempo la mia dieta, che non consente cenoni, mi induce a pensare che, anche se avessi rimandato il mio scritto all'anno nuovo, non mi sarei espresso in modo diverso. E vediamo ora che cosa non va nella doppia negazione da me usata. Dal tempo di Chiaro Davanzati e giù giù attraverso il Boccaccio, il Pulci, il Marini fino al Manzoni e ad Ungaretti, la doppia negazione è presente nella lingua italiana. Ecco qualche esempio: «Credonsi molti, molto sappiendo, che altri non sappia nulla» (Boccaccio); «So con altri ti diletti / né di me udir vuo' nulla I tu fai il torto, inver, fanciulla, / se 1 mio amor tu non accetti» (Lorenzo de' Medici). «Io non vi posso servire in nulla» (Manzoni). «Non mi rimane più nulla da profanare, nulla da sognare» (Ungaretti). Se, dunque, io avessi fatto uno svarione, sarei in ottima e varia compagnia; perfino del mio interlocutore che scrive: «Svarioni non ne- dovrebbe contenere affatto». Temo, poi, proprio che l'osservazione che mi è stata rivolta sia un cattivo rimasticamento di una norma del latino in cui, veramente, due negazioni producono un'affermazione, in italiano non è così e proprio in casi come questi è opportuno il confronto latino-italiano. Ma il non benevolo lettore biasima che sullo stesso numero della Stampa, a pagina 5 (ma pare che il testo non sia mio), si trovi scritto «innestare una polemica» invece di «innescare». Può darsi che si tratti di errore di stampa ma, se non fosse, l'osservazione è opinabile perché se innescare una polemica è usato frequentemente, anche innestare ha il valore figurato di «destare, suscitare» (si veda a p. 33 del volume VTTI del Grande Dizionario di Battaglia) e si ricordi almeno Carducci: «Dagli esilii tome .. ad innestare la libertà nelle menti e nei cuori...». L'autore della lettera dice che è figlio del '68 e, se volessi usare il tono che usa con me, direi che si sente. E' probabile che se ne sia uvuto a male perché io ho detto che non apprezzai allora né apprezzo oggi il '68 e molti suoi frutti, fra i quali era preminente la presunzione che di maestri non c'è nessun bisogno perché ciascuno è maestro di se stesso o dei suoi coetanei. «Somaro il maestro e somaro lo scolaro» diceva Benedetto Croce quando Mussolini si vantava di essere un autodidatta. Un altro lettore mi segnala, in un articolo di Giulio Tremonti sul Corriere della Sera, un verbo, geopardizzare, che non esiste neppure nei più recenti repertori di neologismi e mi comunica di aver trovato nei vocabolari di Oxford, che sono, come tutti sanno, di varia mole, (to)jeopardize col significato di «arrischiare, mettere in pericolo»; ma quello che forse può interessare è che la parola dalla quale viene il verbo in questione, jeopardy «azzardo, pericolo», è l'antico francese jeu parti «gioco diviso» presente anche nel Roman de Tristan. Tsjeu parti era una composizione in versi in forma di dialogo in cui gli interlocutori sostenevano tesi opposte: di qui il significato di «dilemma alternativa», poi, nel passaggio all'inglese, quello di «rischio, pericolo-. Non so se il cortese lettore si sia interessato a questa vicenda di una parola che ha un valore più generale di quello che non possa sembrare dall'esempio qui riferito. L'inglese è pieno di parole francesi entrate in diversi periodi storici e in particolare dopo la conquista nonnanna del 1066 con Guglielmo il Conquistatore, ma anche nel '700, sia pure con intensità minore rispetto all'Italia e alla lingua italiana II lettore, però, mi fa chiaramente capire che desidera sapere se l'uso di geopardizzare sia auspicabile. Direi chiaramente di no. Non mi sembra che ci sia nessuna necessità di introdurre il nuovo vocabolo. Visto che siamo in tempo, possiamo evitarlo. Se qualcuno proprio non potesse farne a meno, si serva, ma lo spieghi almeno al prossimo che si sente preso in giro dall'introduzione a getto continuo di tprmini incomprensibili. Tristano Bolelli

Luoghi citati: Italia, Milano, Oxford