Tute blu incubo di Budapest

Tute blu, incubo di Budapest Regime e opposizione non sanno come «conquistare» gli operai Tute blu, incubo di Budapest Il loro disinteresse apparente spaventa i politici, che temono un'esplosione del furore popolare, come nel '56 - La formula «democrazia in cambio di sacrifici» ha penalizzato soprattutto la classe lavoratrice - Il filosofo Janos Kis: «Il patto sociale rischia di non passare» dal nostro inviato BUDAPEST — I palazzoni operai della piccola Pest vengono avanti nella nebbia danubiana, bianchi e improvvisi come iceberg già prossimi al Titanic comunista, l'imponente sede del Partito. Puoi percorrere chilometri di questa periferia, costeggiando stabilimenti e ciminiere, torri di quindici piani e casupole che vanno in pezzi, senza trovare sui muri una scritta, uno slogan politico, un segnale che riecheggi il frenetico dibattito che ha luogo a dieci minuti di macchina, nel centro di Budapest. La mitica classe operaia cui il comunismo riformista chiede soccorso, qui come a Varsavia, come a Mosca, non si dichiara, non si schiera: attende. Il suo silenzio allarma un regime che si porta dentro la sindrome del '56, quando si lasciò cogliere completamente di sorpresa dall'esplosione popolare. Ma inquieta anche l'opposizione, consapevole che saranno i colletti blu a ratificare, annullare o sovvertire il baratto tra aspri sacrifici economici e un inizio di democrazia. Così adesso pare sospesa nel vuoto la scena su cui un'esigua fascia di ceto medio si scontra e si accorda sul futuro dell'Ungheria all'interno di un cerchio di pochi chilometri tagliato a metà dal Danubio. Di qua dal fiume ecco la Collina delle Rose, con le ville del Politburo, le villette della tecnocrazia, le confortevoli case a schiera dei quadri alti dell'amministrazione. Tra questi viali la ricetta liberista degli economisti — mercato, efficienza, produttività, dunque ristrutturazione dura e maithusiana, con licenziamenti in massa ' e tagli di rami secchi4—sembra accordarsi con i tremori. di una oligarchia politica che si sente minacciata, e questa convergenza traccia una «via sudcoreana al socialismo», o un «modello turco" — per dirla con il comunista Mako Csaba, direttore dell'Istituto di sociologia dell'Accademia delle Scienze, che lo descrive così: una parvenza di democrazia, quel che basta per canalizzare e rendere visibili i fermenti della società ungherese; molto mercato, quali che siano i prezzi sociali; e la sopravvivenza del vecchio regime autoritario, fortemente gerarchico e militarizzato, con la polizia pronta a schiantare la protesta. Ma al di là del Danubio, nel vecchio centro di Pest, con l'università tappezzata di graffiti, le redazioni di una stampa sempre più spregiudicata e i teatrini in cui l'opposizione si organizza e cresce, si è consapevoli che il regime dovrà comunque venire a compromessi, perché da solo non è in grado di imporre al Paese una riconversione economica quantificabile in 200 mila licenziamenti su quasi tre milioni di colletti blu e nella decurtazione — anche del 20 per cento — dei redditi familiari, un quinto del quali già sotto il livello minimo. Per distribuire le responsabilità di una politica impopolare e farla accettare, sarà costretto a chiamare l'opposizione dentro un governo di unità nazionale. Non potrà dettare un patto: lo dovrà negoziare. E in questa direzione già si muove l'ala radical-riformista del partito. Ma il partito è in grado di accettare questa sfida? Ecco il suo Titanic di marmo appoggiato sulla riva del Danubio, immenso e minaccioso come lo volle la polizia segreta, in origine destinataria dell'edificio. Qui dentro negli ultimi mesi sono state protocollate 9000 let- tere di insulti, di minacce. Gli iscritti calano nella misura di 5000 al mese, da 860 mila che erano all'inizio dell'88. Oppure non stracciano la tessera, ma prendono anche quelle di gruppi d'opposizione. All'ultimo piano, dov'è il comitato centrale, socialdemocratici travestiti da leninisti incrociano stalinisti travestiti da socialdemocratici, davanti ad un Lenin piuttosto aggrottato. Confusione, incertezza, paura. Un clima che il giornale della Lega dei Liberi Democratici racconta con i vecchi versi di Ady Ahogy: «Trema, Terra, perché tutto è già deciso, tutte le stupide, antiche torri di Babele crollano, e gli irati abitanti cadono sotto le macerie-. Gli irati abitanti di Babele annunciano al mondo una Costituzione -borghese», con separazione tra poteri e controlli istituzionali, ma appena dai principi si passa ai fatti scalciano. La settimana scorsa il primo segretario, Grosz, ha ammonito la stampa ad essere «più responsabile", e in provincia le satrapie locali ricattano 1 ge¬ nitori dei giovani del Fidesz, il movimento studentesco. Così si assiste a questo paradosso: un'opposizione debolissima, liquidabile in una notte dalla polizia segreta e del tutto priva di una base di massa, costringe a indietreggiare un regime sulla carta onnipotente, ma disorientato, diviso, costretto a patteggiare dall'urgenza di accattivarsi l'Europa e di trovare alleati nel Paese. Ma che patto può nascere tra due antagonisti deboli, tra due minoranze minuscole? Ecco il dubbio che angoscia le intelligenze dell'opposizione. Per Janos Kis, filosofo della scuola di Lukacs, «il patto potrà funzionare solo se riusciremo a estenderlo a tulli i ceti. Altrimenti naufragherà, e con esso anche le forze che lo sottoscrivono. Per questo è di un'importanza fondementale riuscire ad allargare questo dibattito anche agli operai". Dai vani tentativi di trovare consenso nelle fabbriche, l'opposizione ha ricavato l'immagine di ceti operai •molto arrabbiati" con un regime che ha tradito il vecchio patto kadarista (non occupatevi di politica e il partito vi garantirà il miglior tenore di vita dell'Est), ma anche «molto diffidenti verso studenti e intellettuali-, «completamente spoliticizzati" e soprattutto impauriti di finire nella lista di quelli da licenziare. Ma forse ha ragione Csaba, che gli operai li ha studiati, quando osserva che questo silenzio vigile cesserà appena il regime troverà il coraggio di avviare l'inevitabile ristrutturazione dell'economia. A quel punto, ciascuno saprà il destino della propria fabbrica. E deciderà se e come reagire. Proviamo a disegnare uno scenario? Csaba pronostica che se la riconversione indu¬ striale moltiplicherà le possibilità di ingresso nel ceto medio, allora gli operai qualificati ad almeno 25 anni dalla pensione accetteranno la sfida. Ma quelli a pochi anni dalla pensione, soprattutto nei settori obsoleti (miniere, siderurgia), daranno sostegno ai brezneviani; e così i giovani non qualificati, che però saranno tentati soprattutto dalla protesta radicale. Una tendenza che è già presente e che il realismo pragmatico dell'opposizione, disponibile ad una transizione graduale alla democrazia, non riesce a rappresentare. La sezione operaia della Fidesz ha lasciato il movimento, considerato dal regime il più -estremista", ritenendolo troppo pavido. Ha scritto un giovane, motivando le sue dimissioni: «Sono cresciuto nell'era del compromesso e i compromessi non riesco ad accettarli più. Vedo in voi le paure dei nostri padri. Il realismo che rischia di diventare accondiscendenza. Il timore di condannare il regime per quel che è: una dittatura mascherata. Non era giusto cancellare la manifestazione del 23 ottobre (anniversario della rivolta del '56) solo perché la polizia l'ha proibita. Lotta' Niente compromessi con i manganellatori! Altrimenti, compagni, finiremo in un vicolo cieco-. E poi c'è la valanga di lettere anonime, al partito e ai giornali, una rabbia sorda che sale dalle viscere della società e induce al più nero pessimismo Wilmos Farago, vicedirettore di Vita e Letteratura: «Sento nei nervi la stessa aria del '56-. Ma più spesso gli intellettuali fanno riferimento all'ipotesi «polacca»: mesi di scioperi, di conflitti radicali, e all'apice il colpo di Stato di Jaruzelski. Guido Rampolcli

Persone citate: Farago, Grosz, Janos, Janos Kis, Jaruzelski, Lenin, Lukacs, Mako Csaba, Pest

Luoghi citati: Budapest, Europa, Mosca, Pest, Ungheria, Varsavia