Il cantore dell'Italia dannunziana di Francesco Vincitorio

Il cantore dell'Italia dannunziana Il cantore dell'Italia dannunziana Il fregio che decora il Parlamento - L'amicizia col Vate, tra insoddisfazione del presente e voglia di recuperare l'antico ROMA — Per la prima volta, una mostra d'arte nel Palazzo di Montecitorio. L'iniziativa è del presidente della Camera, Nilde lotti, che ha voluto rendere omaggio a Giulio Aristide Sartorio. Il motivo: proprio questo pittore decorò, tra il 1908 e il 1912, l'aula del Parlamento, con un grande fregio simbolico dedicato all'Italia, tuttora esistente. Così, fino all'I 1 marzo, il pubblico potrà liberamente accedere nella cosiddetta Sala della Regina e nei corridoi adiacenti, dove sono esposte circa 40 opere, tra dipinti e bozzetti, del Sartorio «pittore di figure», nonché più di 50 pastelli e disegni con immagini dell'Agro Pontino. Forse è opportuno precisare che non si tratta di un'antologica completa. Come è detto nei due cataloghi (ed. F. M. Ricci e De Luca), solo una limitata scelta dei due principali aioni in cui l'artista fu operoso. Dagli esordi, intorno al 1880, fino alla morte avvenuta nel 1932. Diciamo, una ideale ricomposizione della sua complessa personalità. Che, per ripetere ciò che scrisse il Bellonzi in occasione di un'altra sua esposizione, di alcuni anni fa, all'Accademia di San Luca vuol mostrare per cenni il «l'ero Sartorio... con le sue ambizioni e le sue inquietudini: un periodo, un peiisiero, un costume, un'arte quasi caduti in una dimenticanza totale». In realtà, una dimenticanza da qualche tempo un po' corretta. Non più giudizi sbrigati¬ vi, bensì un serio sforzo di comprensione. Oltre al suddetto Bellonzi, per esempio, la Bossaglia specie nel libro II Liberty in Italia. E, adesso. Bruno Mantura e Anna Mana Damigella, curatori dell'esposizione, e Fausta Cataldi Villari che aveva ideato quella di Latina. Forse con un certo sapore di revival , Ma U pendolo ha le sue leggi e qualche valutazior-c-era un po' troppo positiva forse è inevitabile per trovare il giusto punto di equilibrio. A mio parere più facilmente raggiungibile se si terrà presente il volume di Salinari, Miti e coscien za del decadentismo italiano. Specialmente il capitolo su D'Annunzio. Fin dagli inizi quando era ancora alle prese con le influenze di Fortuny e Alma Tadema, Sartorio fu fervente ammiratore del Vate. Una consonanza che si fece via via più piena. Un dannunzianesimo di prima mano che traeva alimento nell'insoddisfazione per il presente e la voglia di recuperare l'antico favoleggiato Rafforzato dalle comuni collaborazioni alla rivista Cronaca Bizantina e poi al Convito di De Bosis, dove D'Annunzio enunciò la sua personale teoria del superuomo. Sartorio che, grazie a viaggi e letture, era uomo di vasta cultura, ne divenne il portabandiera nelle arti visive. Non è qui il caso d'insistere su come tutto questo avesse radici nel clima che caratterizzò la «adolescenza della Na¬ zione». Alcune precedenti rassegne — come -Aspetti dell'arte a Roma. 1870-1914- e -Roma 1911» — le hanno già puntualizzate. Semmai tutti presi dall'ampio e confuso ventaglio di posizioni artistiche allora in lotta, finora è mancata una specifica attenzione a un capitolo particolare di quella storia. Precisamente, l'insorgere, nell'ambito generale del Simbolismo di un idealismo spiritualeggiante e insieme nazionalistico. Del quale Sartorio fu uno dei più acclamati esponenti Un'area che — anche per capire certi segni irrazionalistici odierni — meriterebbe di essere conosciuta a fondo. Involontariamente, in questa mostra, parecchie opere sono frammiste a busti di parlamentari del passato. Crispi, Giolitti e infine Matteotti diventano così una specie di guida storica dell'attività sartoriana, che in effetti fu strettamente legata a quegli eventi. Specie i quattro grandi teleri con il ciclo La Luce, Le Tenebre, L'Amore, La Morte, che ornavano il salone della Biennale veneziana del 1907 (fulcro dell'odierna mostra) appaiono come una summa degli ideali di quella corrente artistica, preponderante, a livello ufficiale, in quegli anni. Sartorio, unendo il pre-raffaellisrrio inglese (del quale era uno dei maggiori conoscitori) a forme neo-cinquecentesche ma in fondo accademiche, creò gigantesche decora¬ zioni. Nelle sue intenzioni, dovevano far rivivere quella -età dell'oro». Fregi pieni di figure simboliche, dipinti a simiglianza di pannelli marmorei e con mano veloce ed energica, ispirandosi a Michelangelo e Fidia. Ma che, invece, lasciavano spesso intravedere i figurini dei manifesti dei Magazzini Mele. Una pittura appunto velleitaria, enfatica, sia pure tecnicamente sapiente, che denunciava lo iato esistente tra i sogni immaginifici e la realtà. Quadri che eccitavano quelle illusioni che, dopo poco, avrebbero cozzato contro la tragedia della prima guerra mondiale e poi del fascismo. Molto meglio i piccoli paesaggi a pastello che esegui, praticamente, per tutta la vita. Dove, oltre allo spirito del gruppo dei «XXV della campagna romana» del quale fece parte, c'è un'eco della «socialità» dei poeti Cena e Sibilla Aleramo, animatori delle scuole per i contadini dell'Agro Pontino. E, soprattutto, un autentico lirismo. Una vena genuina che si nota già in una lettera giovanile in cui parla dei colori e dei fiori di Parigi. Che verrà però compressa come attività minore, a vantaggio del magniloquente impegno di stile dannunziano. Ed anche dalle ambizioni di essere il «primo pittore» della nuova Italia Ne era convinto quando aspirava a decorare il Vittoriano. Ancor più quando partecipava, in posizione dominante, ai comitati per gli in¬ carichi e le scelte, che esercitarono un grande potere nell'arte del tempo. La sfida a duello, lanciata a! Caffè A:agno a un pittore della neonata Secessione romana per certe lettere anonime che denunciavano tale potare, ne segnò l'acme. Ma pure l'inizio del declino. Riverito, influente, insomma uno dei -potenti», però nell'intimo scontento, si ritirerà man mano nella quiete domestica. Continuerà a lavorare, studiare, viaggiare, a interessarsi di tante cose: nelle sale della mostra viene proiettato anche il suo film «Il sogno di Galateo». Ma ormai premevano altri fatti, altri problemi. Ed egli si sentirà sempre più un sopravvissuto. A parte i bozzetti per la decorazione del Duomo di Messina, commissionatagli poco prima di morire, le testimonianze di questa sua tarda attività sono completamente assenti dalla mostra. Ma, come ho detto, essa non pretende di essere un'antologica. Limitandosi a qualche scandaglio, a qualche suggerimento per stimolarne la rivisitazione. La quale, come scrive Mantura nel catalogo, dovrebbe «restituire alla coscienza critica e storica contemporanea la vera e alta sua dimensione d'artista». Con qualche dubbio sulla parola «alta», mi permetterei di aggiungere: con quel ;ereno distacco che i molti decenni trascorsi rendono oggi possibile. Francesco Vincitorio