Da Belli a Trombadori: così si specchia un'Italia papalina

Da Belli a Trombadori: così si specchia un'Italia papalina Sciascia e la poesia romanesca Da Belli a Trombadori: così si specchia un'Italia papalina 1giorni son sempre di 24 ore, gli anni di 365 giorni: ma ore, giorni e anni si dilatano, si allungano, si infoltiscono quando siamo giovani; si stringono, si accorciano, si diradano quando la vecchiaia ii aduggia. Avevo tempo per tante cose, da giovane; ne ho poco e per poche cose invecchiando. E tra le tante cose che da giovane mi occupavano c'era il dialetto, i dialetti, la poesia dialettale. Forse, negli anni del fascismo e della guerra, il devolver tempo ai dialetti e alla poesia dialettale era un modo di discorrere di fronte al fascismo, una forma di avversione, di reazione; ma era anche passione per una letteratura di profondità, di radici, esistenziale, «materna»: delIVi contro il super-io mistificato e mistificante. Nel dopoguerra, mi accorsi che non ero il solo a nutrire quella passione, ad aver trovato quel rifugio. I miei rapporti con Pasolini — per il tramite del poeta romanesco Mario dell'Arco — si intensificarono in quel lavoro che lui andava facendo sulla Poesia dialettale del Novecento: lavoro cui confusamente collaborai per quella siciliana (che Pasolini seppe poi con sicurezza scegliere e ordinare). E con prefazione di Pasolini fu pubblicata una mia piccola antologia della poesia romanesca, ormai introvabile. Tanti erano i poeti dialettali che amavo, anche di dialetti per cui avevo bisogno di un glossario: l'abruzzese Clemante, il genovese Firpo, il triestino Marin, il molisano Cirese, il siciliano Molino (e lì si trova, infatti, nel catalogo dell'editore Salvatore Sciascia che negli Anni Gnquanta, col consiglio di Arnaldo Boccili e un po' anche mio, a Caltanissetta, aveva cominciato una sua generosa attività editoriale); ma il mio grande amore era la poesia romanesca, il Belli in cima. Avevo cominciato a leggerlo, quasi per caso, in una specie di almanacco mondadoriano che annunciava la pubblicazione dell'opera completa (1935: ma i sonetti, in tre volumi, uscirono, a cura di Giorgio Vigolo, nel 1952): ed erano i due sonetti L'Angeli ribbelliy che a rileggerli oggi sembra dicano di brigatisti e mafiosi pentiti e impuniti. Riuscii poi a trovare qualche scompagnato volume dell'edizione del Morandi, l'antologia curata dal Vigolo per «i ^' ssici del ridere» di Formiggini e, sul finire della guerra, a far quasi da beffarda e dolorosa estrema unzione al fascismo, quelle di Moravia e di Baldini. E in effetti si deve a queste tre antolo-, gie, ai saggi di Vigolo, Trompco e Carlo Emilio Gadda pubblicari in riviste, alla completa e accurata edizione del Vigolo dei 2283 sonetti, se Belli è ormai considerato poeta grande: grande quanto Leopardi, e a Dante il più vicino. Questo divagante preambolo per dire che nei circa 300 sonetti romaneschi cheAntonello Trombadori ha scritto tra il '73 e l'87, e ora raccolti nel volume edito dalla Newton Compton, ritrovo un'eco del mio piacere di leggere Belli e di rileggerlo nei momenti in cui il mio pessimismo trova conforto nel suo (conforto, intendo, nel senso che le condizioni dell'Italia son state sempre disperate e che, a pensarci bene, questo nostro paese è stato messo assieme dal pensare laico, ma ha preso inconsciamente modello dallo Stato del papa). Antonello Trombadori, i sonetti di Belli li sa a memoria e spesso li ripete. Non dico tutti i 2283, ma sicuramente quelli in cui il «modo di essere» dei romani di Roma trova, per così dire, un'articolazione topografica: strade, piazze, palazzi, chiese. La sua conoscenza di Roma, il suo amore a Roma, il suo andare per Roma, è insomma intramato alla memoria dei versi del Belli: dal che gli viene non solo quello che Vigolo chiama l'intarsio di versi belliani nei suoi, ma anche l'esatto racchiudere un fatto, un personaggio, un'impressione, un giudizio nei quattordici versi di un sonetto. Si dirà che il sonetto è sempre stato, in questo senso, obbligante misura: ma per quello del Belli si può dire con Gadda che «la violenza icastica, il quanto di energia espressiva, richiede ed empie la capacità del sonetto, si versa e si configura tutta nel tuono del sonetto. Così avviene che la figura geometrica è il luogo dei punti espressivi di una determinata proprietà». Di questo quanto, di questo luogo geometrico che è il sonetto belliano, senza sbavature e senza residui, in cui il «tutto» di sentimento e di espressione al momento precipita. Trombadori è riuscito a fare un calco in cui versa e rapprende la «sua» Roma: momenti di una cronaca che, a leggere i sonetti uno ad uno, per come settimanalmente apparivano sul Messaggero, forse sembrava di divertimento, capriccio, parodia; ma nel far libro concorrono a una rappresentazione sociologica della città capitale in quegli anni e rendono comprensibile, per esempio, il fenomeno, sociologico prima che politico, del cosiddetto compromesso storico. Nell'insieme, insomma, i sonetti di Trombadori perdono quel tanto di effimero e di parodistico che l'esistenza di un giorno, su un giornale, loro conferiva: diventano notizia, che non raramente attinge alla poesia, della Roma capitale nei nostri anni. Un omaggio a Belli: da un romano, profondamente romano anche per il paradosso che a Roma è nato da genitori siciliani, che, nel campo della riscoperta e dello studio di Belli, ha anche altre e ingenti beneme-enze. Leonardo Sciascia La raccolta di Antonello Trombadori -Sonetti romaneschi. Ecce Roma» è pubblicata da Newton Compton, con una prefazione di Muzio Mazzocchi Alemanni (pp. 366, L. 20.000). Roma. Una delle statue di Francesco Ceracchi al Giardino del Lago