«Riscopriamo il '56 per ribellarci alla geografia di Yalta» di Guido Rampoldi

«Riscopriamo il '56 per ribellarci alla geografia di Yalta» «Riscopriamo il '56 per ribellarci alla geografia di Yalta» DAL NOSTRO INVIATO TRIESTE—I resti di centinaia di insorti uccisi durante e dopo la rivolta del '56 saranno dissepolti dalle fosse comuni, ove possibile identificati e infine tumulati tutti in un sacrario: a quanto rivela Miklos Vasarhely in questa intervista, il ministero della Giustizia ha infatti accolto la richiesta concordata tra la figlia di Imre Nagy e le vedove Maleter, Szilàgy, Gimes e Losonezy (i primi quattro condannati e impiccati nei due processi al gruppo dirìgente dell'insurrezione che videro anche Vasarhely tra i dieci imputati; l'ultimo morto in circostanze misteriose alcuni mesi prima). Nelle intenzioni delle cinque donne quel grande sepolcro dovrà rispettare l'ultimo desiderio di Istvan Angyal, che prima di essere condotto al patibolo immaginò una gigantesca roccia sulla quale fossero incisi, in ordine alfabetico, i nomi di tutti i patrioti assassinati in quei mesi; e sarà eretto al limite estremo del cimitero di Budapest, proprio di fronte alla Gujtofoghaz, la prigione centrale, dove venne sterminata l'elite della rivolta. Malgrado in trent'anni il regime abbia negato qualsiasi informazione, si è certi che quel lembo dì terra brulla e deserta, indicato solo da un numero — Campo 301 —, racchiuda i resti della maggior parte degli uccìsi: 220 solo a Budapest, secondo un elenco stilato dopo lun¬ ghe ricerche semiclaxidestlne, dalle quali risulta che il 70% erano operai; molti erano iscritti al partito comunista. Miklos Vasarhely ha 72 anni e in quel novembre del '56 era il portavoce del governo di Imre Nagy, col quale condivise il confino in Romania e l'arresto. Tra i sopravvissuti al processo del '58 è l'unico che si è ostinato a vivere in Ungheria, senza venire a patti col regime. Continua a dichiararsi marxista: e anche per questo oggi è una figura tra le più imbarazzanti per 11 comunismo europeo, cui Vasarhely rimprovera atteggiamenti ancora elusivi o reticenti sulla rivolta del '56. A Trieste, dov'è ospite di un convegno dell'Istituto Gramsci sulla riforma del socialismo, gli abbiamo chiesto i motivi delle sue critiche e del suo ottimismo. Miklos Vasarhely, mentre il governo vi tende una mano il Poiitbjuro è teatro di uno scontro furibondo, con Imre Pozsgay che definisce «rivolta popolare» l'insurrezione ungherese e Karoly Grosz, il Drimo segretario, che lo smentisce aspramente. Non teme che i Pozsgay e i Nyers escano isolati e sconfitti, che si torni indietro? -Sono convinto che si arriverà ad un compromesso. Se oggi Grosz tentasse di estromettere Pozsgay si troverebbe contro tutto quel gruppo del Poiitbjuro che, come i sovietici, cerca la mediazione e va dicendo: il '56 fu un periodo complesso, non si può ridurlo dentro un'etichetta, sia questa "rivolta popolare" oppure "controrivoluzione". Credo che costoro si rendano conto che il processo in atto non è più arrestabile. Del resto stanno accadendo cose piuttosto straordinarie: la figlia di Nagy che compare alla tv, la radio che il giorno prima manda in onda una mia lunga intervista. Senza neppure un taglio!». E in questo compromesso che lei intravede c'è anche la possibilità che sia autorizzata la ricerca storica sul *56? «In via di principio non ci sono ostacoli ma nei fatti ci è negato perfino l'accesso alle collezioni del giornali di quel periodo, n fatto è che questo è un terreno molto rischioso per il regime. Perché se si aprono gli archivi, scopriremmo che tutte le scelte imputate a Nagy — anche la dichiarazione di neutralità, anche il ripristino del sistema dei partiti — sono state condivise dal vertice del pc ungherese. E accettate, anzi in certo modo suggerite, dal rappresentate dell'Urss, Mikoyan. Fu Mikoyan in quella fine d'ottobre, quando ormai era chiaro che la situazione richiedeva compromessi, a dire a Nagy: faccia tutto ciò che ritiene giusto per salvare il socialismo». Perché pochi giorni dopo a Budapest arrivarono i carri armati? -Attraverso certi canali, i sovietici ora stanno mettendo in circolazione due versioni: la prima vorrebbe che siano stati i cinesi a pretendere l'invasione; l'altra che nel Poiitbjuro si sia formata una maggioranza decisa a mettere in difficoltà Krusciov. Ma la verità è negli archivi di Mosca». Ma adesso perché i sovietici permettono che andiate così avanti nella «riabilitazione» della rivolta? Non fu proprio il '56 ungherese, coi comunisti al governo insieme alle forze socialiste e cristiane, a far saltare la concezione leninista del partito, varcando quel limite che neppure Gorbaciov pare deciso a oltrepassare? «I sovietici non vogliono uno scandalo politico, questo è 11 punto. Il problema è un altro e investe la legittimazione del regime ungherese. Perché, certo, la vecchia guardia chs "normalizzò" l'Ungheria, Kadar e i suoi, è già uscita di scena; ma è nel partito di Kadar che i Grosz sono cresciuti e hanno raggiunto il vertice. Per dire: l'ambasciatore ungherese a Mosca è il colonnello che nel '58 venne ad arrestare Nagy e me in Romania. Per questa gente le cose cambiano se viene riconosciuto che il '56 fu unp rivoluzione democratica e socialista». Sono trascorsi 33 anni: non teme che le nuove generazioni ungheresi non abbiano grande interesse a riscoprire il '56? «Accade proprio il contrario. Sono quelli che il '56 lo hanno vissuto che semmai hanno voglia di dimenticare: in fondo gli è rimasta dentro la paura. I giovani questa paura non l'hanno, e sono pieni di interesse. L'anno scorso, ancora in epoca kadarista, ho tenuto una conferenza all'università Marx. Centinaia di studenti. E domande su domande, senza alcun timore. Per l'Ungheria di oggi il legame col '56 è nel sentimento fortissimo di appartenza all'Europa: la rivolta è la ribellione alla geografia di Yalta, è il ritorno del Paese nella sua matrice storica, europea». Nel bel libro-intervista dello storico comunista Federigo Argentieri lei ricorda alla sinistra europea l'obbligo morale di un'autocritica e di una riflessione più onesta sul '56. Ritiene che a sinistra si menta ancora? «Mentire no... ma, ecco, non vorrei offendere Natta, però non sono affatto d'accordo con certe sue dichiarazioni di tre anni fa, che pure nel panorama del comunismo europeo rappresentano il punto più avanzato al livello di segretario di partito. Non si può dire si alla primavera di Praga e ni alla rivoluzione ungherese, perché entrambe nascono dagli stessi motivi, la ribellione ad una concezione del partito e del potere». Natta sosteneva che a Budapest accanto a «sinceri rivoluzionari» erano in ' campo anche «autentici controrivoluzionari che guardavano a Horthy». «Non c'è un solo documento che giustifichi questo giudizio. Certo, quando c'è una grande rivolta popolare e tutto è in movimento agiscono foize diverse. CI furono eccessi, che condannammo subito. Ma qual era il segno del '56? C'era una grande rivolta popolare per costruire un socialismo democratico. Per la sinistra europea, che non si occupa molto di quella esperienza, sarebbe doveroso e utile studiarne certe soluzioni innovatrici». Si può spiegare con la situazione interna e internazionale del '58 anche l'applauso al boia, il Togliatti che all'indomani dell'impiccagione di Nagy e degli altri leader comunisti afferma che l'eliminazione di quanti «istigarono, favorirono la criminale sommossa» ricade nella giusta logica della «guerra di classe»? «Credo che Togliatti fosse perfettamente consapevole di come stavano le cose. Ma il suo giudizio nasce dal male storico del movimento comunista, l'attitudine a far prevalere considerazioni tattiche sulla politica e sull'etica, sui suoi valori più nobili. E quando questo avviene, il risultato è sempre tragico: come tragico è stato per il pei portarsi dentro il peso di quelle dichiarazioni sinistre». Guido Rampoldi