Brucia, fazendeiro, brucia di Sergio Quinzio

TRE SAGGI SULLA DIVERSITÀ' RUSSA TRE SAGGI SULLA DIVERSITÀ' RUSSA I Santi terroristi SCOMPARE LA GIUNGLA AMAZZONICA, FONTE DI VITA PER IL PIANETA Brucia, fazendeiro, brucia La «diversità» della Russia rispetto all'Europa, o al resto dell'Europa, è qualcosa che percepiamo tutti subito. Più intensamente di noi l'hanno percepita i russi, per esaltarsene come di un privilegio, di un'elezione, di un compito messianico; o al contrario per sentirla come un marchio d'inferiorità. Quando la Russia — o l'Urss, dopo che quel lontano impero ha cambiato nome — si chiude in forme sociali e politiche profondamente difformi da quelle occidentali, come quando sembra invece aprirsi ad influssi occidentali, la diversità emerge ugualmente. E' una differenza sulla quale non ci siamo interrogati abbastanza. L'ottica storico-politica prevalente nei nostri consueti approcci, che convoglia in sé pregiudizi e risentimenti, non è adeguata a farcene scoprire il senso. Molto di più, certo, ci è dato di comprendere attraverso la grande narrativa russa del secolo scorso. Ma una visione d'insieme, che risalga indietro nel tempo verso le radici per cercare le ragioni, ci manca, ed è la visione che ci è necessaria oggi, nel momento in cui con quella diversità — in parte ridimensionata, ma ancora ben viva — dobbiamo storicamente confrontarci. Forse il destino ci sta portando verso una specie di planetario meticciato universale, in cui ogni particolarità finirà per dissolversi. Ma prima di questo finale appiattimento entropico c'è forse ancora spazio per incontrare davvero realtà diverse dalla nostra. Nei confronti della Russia e della sua storia una seria possibilità di conoscenza ci è offerta dagli studi di Laura Satta Boschian, docente di lingua e letteratura russa. Tre suoi libri ci conducono dalla Russia del Settecento che vede l'incontro dell'autocrazia orientale con le idee dell'Occidente — L'illuminismo e la sleppa (ed. Studium, 1976) — al fervido passaggio fra Ottocento e Novecento — Tempo d'attento (Edizioni Scientifiche Italiane, 1982) — fino allo sconvolgimento della grande rivoluzione — Dalla Santa Russia all'Urss (1905-1924) (ed. Studium, 1988). Insieme, questi libri dedicano poco meno di 1500 pagine, ben documentate e ben scritte, a un'impresa coraggiosa e originale, che consiste nel raccontare una storia che sia nello stesso tempo storia delle concezioni e degli avvenimenti politico-sociali, della letteratura nelle sue varie forme (narrativa e poesia, teatro e critica letteraria, diari ed epistolari), del pensiero filosofico e religioso, dell'ambiente, del costume, del vissuto di tanti, e spesso sconcertanti, personaggi. Nel terzo volume, centrato sulle vicende che precedono e seguono immediatamente lo scoppio della rivoluzione del 1917, le figure e le azioni di Lenin, dello zar Nicola II, dei primi ministri da Stolypin a Kerenskij, di tanti altri personaggi della scena politica, s'intrecciano con la vita e le open: di Gor'kij e di Andreev, di Merezkovskij e di Blok, di Majakovskij e di Esenin, di Belyj e di Berdjaev... La diversità russa risulta evidente nel suo continuo rifl rtersi in tutte le dimensioni '. livelli di un unico carattere culturale, di un unico atteggiamento di fondo che si rivela ovunque uguale a se stesso, anche attraverso le sue di regola accanitamente contrastanti espressioni: quel «carattere» che ha reso possibile la tragica esperienza della rivoluzione, la quale, come dice il sottotitolo del libro, fu Un destino voluto da tutti, anche dallo Zar che ciecamente lo favorì volendolo scongiurare e che fini per arrendersi passivamente, appunto come a un destino. Come potremmo definire il «carattere» russo? Laura Satta Boschian mostra in molti modi che «la mentalità botghese è estranea» alla Russia. Vi è esttanea la mediazione, l'accettazione della necessaria relatività delle cose, e vi è presente ovunque — persino nella ricerca storiografica — una bruciante passione. Si è operato attraverso i secoli, nell'immenso e gelido Paese, uno strano connubio fra la terrestre, arcaica paganità contadina e la speranza nella perfetta redenzione cristiana: è questa «la doppia fede (divererie) tipica del cristianesimo russo». Un connubio esplosivo perché — come testimoniano A Fédorov, Dostoevskij, Merezkovskij, Rozanov — «l'idea che il paradiso, dove non esiste la morte, dovesse realizzarsi nell'indistinta aura del cielo, e non nella chiara concretezza della terra, aveva lasciato sempre tutti insoddisfatti». In quegli anni «il giovane Sklovskij, non ancora "padre del formalismo", tenne una conferenza sulla "Resurrezione della parola". La resurrezione comunque intesa occupava sempre i cuori dei russi». Il futuro del futurista Maiakovskij — e il futurismo avrà una parte significativa nella preparazione della rivoluzione — è il mondo redento: i suoi sono «gridi di sdegno contro i sazi, di pietà per i sofferenti, di disperazione per l'inutilità del creato»; «nel "mondo terribile" anche gli oggetti tumultuano per "scrollarsi di dosso i brandelli dei loro consunti nomi"». «Un'attesa — da anni si era in attesa». La Satta Boschian vede soprattutto un'attesa della fine, una «inarrestabile volontà di catastrofe»: «Tutto in Russia si alleava in quegli anni per un'oscura incerta e personale rivoluzione, ma per distruggere non per costruire», «La corsa di tutti verso l'ignoto era la malattia mortale» della Russia. L'attesa era, sì, attesa della distruzione, della fine: «L'attesa apocalittica, che aveva messo a disagio per tanti anni tante coscienze e fatto quasi delirare tanti pensatori», non poteva ceno, alla vigilia della rivoluzione, risolversi in un governo democratico che preparasse la Costituente (ma questo il pur sagace Stolypin non lo capiva, non vide dunque abbastanza). In realtà, proprio come nella tradizione cristiana che annunciava la pienezza finale del regno di Dio solo al di là dell'apocalisse, al di là della catastrofe purificatrice della rivoluzione c'era, nella speranza, nella certezza, il vero inizio. «Il nocciolo del leninismo — secondo Laura Satta Boschian — è proprio in questa necessità di sovvertire il passato, di cataclisma. Solo calpestando tutti i valori le leggi i principi morali, ogni fede ogni consuetudine ogni superstizione e facendone scempio, il nuovo mondo avrebbe potuto instaurarsi». Se questo è il volto anticristico della rivoluzione, non è meno vero che Merezkovskij nel nome di Cristo vedeva i terroristi come i nuovi santi cristiani. Lenin, a differenza di Stalin, credeva fermamente, nella sua lucidissima follia, che il mondo giusto, libero da ogni potere, luogo di ogni creatrice spontaneità, sarebbe venuto, che stesse anzi venendo. La sua mente era acuta e calcolatrice, ma la rivoluzione era in lui una fede assoluta, che restava viva malgrado ogni evidenza contraria, e per la quale era disposto a rischiare tutto, a pagare anche personalmente qualunque prezzo. Vinse invece la burocrazia, che Lenin sapeva di dover temere: una nuova burocrazia molto più totalitaria di quella zarista. Ma, se è lecito un confronto fra cose troppo diverse, anche in luogo del regno di Dio annunciato da Cristo venne la Chiesa con la sua non di rado disumana burocrazia ecclesiastica. Blok, ne / dodici, vede Cristo alla testa delle guardie rosse, e nel suo diario annota: «Che Cristo vada davanti a loro è indubbio». E Belyj, in Cristo è risorto, identifica addirittura la crocifissione della Russia, in preda a ogni miseria e all'agonia del terrore rivoluzionario, con quella di Cristo e ne proclama l'imminente resurrezione. Majakovskij ed Esenin, ormai alcolizzato, finiranno suicidi, Mandel'stam tenterà il suicidio e poi finirà in Siberia. Soprattutto i poeti fecero in modi diversi l'esperienza della delusione del sogno della rivoluzione, subendone in modi diversi, quasi sempre mortali, la condanna. Ma impressiona il ruolo che ebbero in quegli anni: ovunque si tenevano letture di poesia per «avvicinare il pubblico dei lavoratori alla grande poesia». La bara aperta di Blok, secondo l'uso russo, «fu portata a spalla per 6 chilometri dalla sua abitazione al cimitero di Smòlensk. E due ali di folla per 6 chilometri gli diedero l'ultimo saluto». L'immenso polmone verde è diventato un braciere - L'estate scorsa 8 mila incendi hanno distrutto un'estensione quasi come l'Italia - Si creano pascoli o coltivazioni - Ma gli allevamenti producono solo 40 chili di carne l'ettaro (contro i 600 europei) - La terra è sterile: dopo due anni dev'essere abbandonata - Chi si oppone viene ucciso: una vita vale 25 dollari a quella parte d'Italia che sta tra le Alpi e Napoli. Di tipi come il mio pilota, VAmazzonia ne offre a ogni incontro. Sono uomini all'ultima frontiera della vita, cercatori d'oro, predicatori folli, ruffiani senza merce, trafficanti di droga, killer a ingaggio libero, puttane bambine, raccoglitori della gomma, coloni che migrano dal Nordesle. Passano e muoiono senza memoria, incrociando silenziosamente le strade di chi traversa la foresta. Le storie dell'Amazzonia sono ancora viaggi smarriti nell'avventura, raccontano territori incerti, tentati sempre da invenzioni segrete e misteri. Ma le cronache del viaggio non riescono poi a sottrarsi all'impatto dei segni che annunciano già la fine di un mondo: con questo ritmo di fuochi e d'incendi appiccati per disboscare sempre nuovi appezzamenti, in una erosione che va avanti a macchia dì leopardo ina ha effetti devastanti sull'intera catena dell'ecosistema per decine di chilometri attorno a ogni zona "ripulita», VAmazzonia sarà scomparsa completamente nei primi dieci anni del Duemila. Non è un affare solo del Brasile, ci riguarda tutti. Chico Menàes, il seringueiro che amava i suoi alberi della gomma ed è stato ammazzato un paio di mesi fa dal padrone di una grossa distesa di terra, era un uomo semplice e di nessuna cultura accademica, che però aveva avuto un premio dall'Onu per quella sua costanza d'impegno a difesa della aelva amazzonica. Di Chico s'e parlato molto in questi giorni, grazie a quel premio che impegnava la coscienza del mondo: ma come lui ne muoiono almeno altri cinquecento ogni anno e nessuno ne sa nulla. La legge della giungla è semplicemente che chi è più forte ammazza, gli altri tacciono. E i più forti sono i padroni delle immense spianate di terra che vengono usate come pascolo. Chi protesta, chi difende la terra che ha coltivato e si rifiuta di lasciarla alle mandrie dei fazendeiros./tnisee a pancia all'aria divorato dalle formiche, dalle termiti, dagli uccelli rapaci. L'Onu dice che la foresta è un bene di tutti, fabbrica d'ossigeno per l'intero pianeta, e dà i suoi premi a chi la protegge, ma i pistoleri quando arriva l'ordine ammazzano. La vita di un uomo vale 25 dollari, spese d'esercizio comprese. Altrove la polizia interviene a bloccare violenza e soprusi, qui la polizia prende i soldi dei fazendeiros e guarda da un'altra parte quando qualcuno tira fuori la pistola. Chico, e quelli del suo sindacato, si trovano accanto solo DAL NOSTRO INVIATO latifondisti hanno fatto appiccare gran parte degli incendi nei mesi scorsi, perché la nuova Costituzione sottrae alla riforma agraria le terre lavorate: e l'incendio era titolo sufficiente a evitare l'espropriazione. La concentrazione delle terre si fa un rullo compressore: nel '60, gli appezzamenti di meno di 100 ettari erano l'84,6 per cento delle nuove frontiere agricole; oggi sono soltanto il 3,7. Poco più di niente. I fazendeiros ingurgitano ogni spazio sul quale possano allungare le mani; la sola attività che li interessi é l'allevamento, che chiede bassi investimenti e riceve milioni di sussidi dal governo ti quarti di manzo finiscono poi negli Usa, nelle catene degli harn burger). Ogni incendio di foresta apre nuove terre al pascolo, ogni colono è un noioso disturbo da eliminare: le proprietà che hanno più di 10 mila ettari rappresentano cosi il 75 per cento delle nuove aziende agricole dell 'Amazzonia. Aggiunge Lutzenberger, sconsolato, da dietro i suoi grandi occhiali: «Si distruggono alberi secolari, magari per esportare legna con la quale fare stuzzicadenti, e si creano pascoli per un bestiame che dà una produttività annua di 40 chili di carne per ettaro quando in Europa si arriva a 600 chili; per di più in una terra povera, che non ha nutrimento, e bisogna tornare a incendiare di nuovo altra foresta». Ma quando si brucia l'Amazzonia non è solo il cielo che per settimane si fa nero di fumo, o la temperatura del pianeta che rischia di scaldarsi; è un mondo che muore. La foresta tropicale è U più ricco habitat del creato: si credeva che sulla Terra ci fossero solo 2 milioni di specie viventi; poi si sono osservati gli insetti che vivevano negli alberi della giungla, e oggi si sa che esistono almeno 30 milioni di specie, gran parte nemmeno classificate. Ogni albero che brucia è un pezio di vita che sparisce, ogni zolla di terra sono i t>yi esseri microscopici distrutti per sempre. Dei giorni che ho trascorso con gli Arawetè, nel fitto della giungla dell'Alto Xingù, ricordo ancora l'incredibile varietà di invertebrati che ho visto, per terra, sugli alberi, addosso a me, visetti e coleotteri di ogni forma e colore, di dimensioni spesso inattese, affascinanti e mostruosi più degli incubi dell'infanzia. Erano il bestiario vivente che raccontava la lunga storia dell'uomo, partendo da un'antichità lontana milioni di anni. C'era una volta l'Amazzonia. CUIABA' — Luiz Antonio Correira, piccolo, secco, 30 anni, è uno che non si fida. I viaggi li vuole saldati subito e in contanti. Campa facendo il pilota per l'AreoThor di Uberlandia, e il suo disperato monomotore lo affitta come un taxi alla gente che finisce in questo paesone perduto nel Malo Grosso, tra capanne di legno fradicio e avventurieri senz'anima. Luiz ha una risata larga e amichevole, e in questi giorni mi ha portato a girare in aria sulla giungla per cercare le terre degli indios Akaiwà. Nel cielo di burrasca il ghigno del pilota aiuta molto, e poi Correira conosce tutte le storie della foresta, i suoi spiriti buoni e anche i suoi diavoli furiosi. Lui pilota il piccolo aereo di latta ed intanto parla e parla. Ma non bisogna credergli molto, fantasie e realtà hanno per lui confinì assai incerti. Quando parlava di quest'inverno, però, l'inverno di quaggiù, da giugno a settembre, caldo e più asciutto, sembrava dire la verità: «Di notte, volando, i fuochi che bruciavano nella giungla parevano villaggi nell'oscurità. Era come se ci fossero stati cento bordelli di Robertina con tutte le loro ragazze allegre e le luci attorno. E il fumo è stato così denso che per parecchi giorni gli aeroporti sono stati chiusi. Non si volava proprio, era una grande nebbia, spessa e puzzolente». E sputava a terra, tra i suoi sandali, per togliersi ancora dalla gola quel puzzo acre di bruciato. Ora è la stagione delle piogge, e fino a marzo molti fuochi nella giungla resteranno spenti. Ma Luiz Antonio non imbrogliava: lo scorso anno sono finiti in fiamme 260 mila chilometri di foresta. La giungla dell'Amazzonia è un mondo che non ha orizzonti per 6 milioni e mezzo di chilometri quadrati, un mare-di verde impenetrabile,fitto, intricato, vasto più di mezza Europa; però gli incendi dell'88 hanno distrutto una superficie pari Cuiabà. Un'autostrada in costruzione taglia la foresta amazzonica e suscita allarme. Gli incendi per disboscare devastano l'ecosistema per decine di chilometri intorno a ogni zona «ripulita» il Brasile registrando (alle 2,30 del mattino e del pomeriggio) le differenze di temperatura nel suolo. Marcos Pereira infila le registrazioni nel computer e ne ricava una mappa con 16 diverse gradazioni di luce, dal nero al bianco: «Vi si legge tutto, anche i fuochi piccoli, appena accesi. E ci sono stati giorni, tra agosto e ottobre, che abbiamo contato fino a 8000 incendi-. L'Amazzonia si sta trasformando in un unico, gigantesco, braciere. Il verde della foresta vergine resta sempre un oceano infinito, ma non basta. «Non siamo preoccupati per la superficie bruciata, che è ancora relativamente piccola; ci angoscia il ritmo d'incremento degli incendi-. Nel '70 erano stati bruciati 30 mila chilometri quadrati; nell'80 erano 125 mila, e oggi sono 770 mila: ma solo nell'ultimo biennio, ira l'87el'88, ne sono stati distrutti i due terzi: 46-1 mila chilometri quadrati. José Carlos Carvalho, segretario generale dell'Instituto Brasileiro de Desenvolvimento Florestal, si stringe nelle spalle, non poteva far molto, non aveva uomini né mezzi. «La pratica di bruciare la foresta è la consequenza diretta di una politica di occupazione mdiscriminata della terra, che è iniziata negli Anni 70. Chi ci guadagna però sono i grandi impresari del Sud, che arrivano in Amazzonia a impiantare progetti agropecuari giganteschi, per decine di migliaia di chilometri quadrati nel Para, nel Mato Grosso, a Rondonia. e Acre. Che sono poi le aree più devastate dal fuoco-. Nello Stato di Rondonia. il disboscamento nel '78 era ancora V1.7 del territorio, oggi è già il 26.4. Ad appiccare i primi fuochi sono i coloni, i milioni di disperati che la fame e la miseria spinge fin quassù lungo le strade della foresta. Bruciano gli alberi, preparano il terreno della loro piccola fortuna, seminano e raccolgono. La terra è di nessuno, soltanto di chi la coltiva. Ma dura poco, due stagioni al massimo, perché il suolo della giungla non è fertile e si consuma subito. Quello che resta è poco più di sabbia, un'arena spessa e inutile che scivola via dalle mani. Alcuni mesi fa ero stato per qualche tempo nella giungla con gli indios Arawetè. Gli uomini della tribù mi avevano portato a vedere i piccoli slarghi di terra che loro coltivano: bruciano anch'essi gli alberi e poi seminano, riso, manioca soprattutto. Ma sono poco più di orti, abbandonati dopo un paio di stagioni e subito rimangiati dalla voracità insaziabile della giungla che li circonda da ogni parte. I coloni che immaginavano un'agricoltura stanziale debbono invece cedere alla povera fertilità del suolo e aprirsi nuovi appezzamenti da coltivare, in una rincorsa continua e disperata che brucia tutto e non lascia spazi alla ripresa della foresta. I grandi prop-netari (sono l'I per cento, però hanno il 44 per cento della terra) non sopportano queste incursioni nella continuità dei loro possedimenti, basati spesso su titoli di dubbia discendenza coloniale; e fanno intervenire i pistoleri, a 25 dollari a cadavere. José Lutzenberger. il più noto ecologo brasiliano, ha calcolato che 3,5 milioni quadrati di terra sono tenuti per ragioni puramente speculative, senza alcun uso produttivo; su queste distese infinite i la Chiesa; e i pistoleri amma-J:n~o anche i preti. Ma la Chiesa è un sindacato troppo forte, la sua voce continua a condannare la violenza e la sopraffazione anche se a Roma, in Vaticano, non sempre ne sono contenti. Comunque la battaglia del coraggio /forse anche della fede) continua ugualmente, e la povera gente della foresta accompagna in lunghi cortei i pochi morti ammazzati che hanno la sorte di una cassa di legno e d'una croce portata da un prete. Dei fuochi, me ne aveva parlato qualche giorno fa, a SaoJosé Dos Campos, Marcos Pereira, una trentina d'anni, di lingua franca e indocile., che lavora nell'Istituto di ricerche spaziali. Sao José sta a 4000 chilometri dall'Amazzonia, ma ogni giorno riceve le immagini del satellite Nooaa9 della Nasa quando questo passa a 930 chilometri sopra Sergio Quinzio