E' morto Cayatte, regista-avvocato di Gianni Rondolino

E' morto Cayatte, regista-avvocato Stroncato a Parigi da un attacco cardiaco: aveva appena compiuto 80 anni E' morto Cayatte, regista-avvocato Con «Giustizia è fatta», premiato nel '50 a Venezia, diede piena espressione ai problemi morali e giudiziari Nella sua carriera girò una ventina di film, tra cui «Il passaggio del Reno», Leone d'oro a Venezia nel '60 PARIGI — André Cayatte, uno dei più famosi registi del cinema francese, è morto l'altra notte nella sua abitazione parigina, stroncato da una crisi cardiaca. Nato il 3 febbraio 1909 a Carcassonne, aveva appena festeggiato gli 80 anni. Laureatosi in Legge, Cayatte lasciò presto il tribunale per dedicarsi alla letteratura e al giornalismo; scrisse diversi romanzi, tra cui Artaban; collaborò quindi alla sceneggiatura di numerosi film, tra cui Entrée des arlistes di Marc Allegret, nel 1938, e Remorques di Jean Oremillon, nel 1940. Passato alla regia, André Cayatte realizzò dal 1943 oltre venti film, quasi sempre dedicati a problemi morali, il più significativo dei quali fu Giustizia è fatta. La carriera di Cayatte è ricca di premi tra cui il Leone d'oro alla Biennale di Venezia nel 1950 per Giustizia è fatta, bissato dieci anni dopo, nel 1960, per II passaggio del Reno. Il successo di pubblico e di critica, internazionale, gli venne con un film che ancor oggi si ricorda per il calore della perorazione umanitaria e la stringatezza dello stile: Giustizia è fatta, che ottenne nel 1950 il Leone d'oro alla Mostra di Venezia e nel 1951 l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Da allora André Cayatte fu, per alcuni anni, il regista «impegnato» che aveva il coraggio di affrontare temi e problemi abbastanza scabrosi o polemici, senza falsi pudori, con determinazione, come se lo schermo fosse il luogo ideale per discutere pubblica¬ mente i casi più gravi o delicati della vita sociale. D'altronde, prima di accostarsi al cinema come sceneggiatore, e poi come regista. Cayatte aveva esercitato l'avvocatura (mestiere al quale era tornato negli ultimi anni). E da questa cultura e pratica giuridica aveva attinto non soltanto i contenuti dei suoi film più famosi, ma anche una certa maniera formale: quel linguaggio asciutto, concreto, finalizzato a una tesi da dimostrare, che fu scambiato allora per uno stile personale, un modo, per certi aspetti nuovo, di far cinema «civile» o «politico», come poi si disse. Ma non fu soltanto questa tendenza che egli praticò con buoni risultati. Già alla fine degli Anni Trenta aveva collaborato con Marc Allégret e con Jean Grémillon per un paio di film romantico-sentimentali. E le sue prime opere come regista furono due corrette trasposizioni rispettivamente da Balzac (L'amante immaginaria, 1942) e da Zola (Au Bonheur des dames. 1943). Come a dire, un cinema let¬ terario, ben fatto, levigato, secondo la migliore tradizione della «qualità francese»: una qualità che Cayatte svilupperà nei nuovi film che dirigerà negli anni seguenti (prima della «svolta» avvenuta nel 1950 con Giustizia è fatta), fra i quali spiccano Pierre et Jean (1943) da Maupassant, e Gli Amanti di Verona (1948), con dialoghi di Jacques Prévert. E tuttavia la sua fama, ed anche il significato che la sua opera ancor oggi può avere nella storia del cine¬ ma europeo del dopoguerra, sono strettamente legati a un piccolo gruppo di film realizzati negli Anni Cinquanta, che costituiscono una sorta di piccolo trattato di cinematografia giudiziaria, con un impatto sul pubblico — in un'epoca pre-televisiva — indubbiamente fortissimo. Così, dal citato Giustizia è fatta, che affronta il tema dell'eutanasia e della parzialità dei giudici, a Siamo tutti assassini ( 1951 ), che tratta della pena di morte, a Prima del diluvio (1953), che indaga sul mondo dei giovani, a Fascicolo nero (1955), sulle inchieste giudiziarie, sino a Lo specchio a due facce (1958), in cui un argomento come la chirurgia plastica si tinge di toni drammaticamente complessi e giuridicamente problematici, è tutto un campionario di casi, che la cinecamera di Cayatte illustra con rigore logico, sebbene in termini alquanto schematici ed artisticamente inerti. Il fatto è che, proprio nel corso degli Anni Cinquanta, il pubblico cominciò ad allontanarsi da un cinema «di contenuti», recuperando il piacere dello spettacolo, magari nelle nuove forme che le varie nouvelles vagues andavano proponendo. Sicché Cayatte, per farsi meglio sentire accentuò ancor più i suoi toni rudi, i suoi schematismi ad effetto; ma parve sempre meno convincente. Nel 1960, ancora una volta, cambiò registro; e il successo tornò a sorridergli, ma per poco. Il suo Passaggio del Reno, un polpettone storico-patriottico, vinse il Leone d'oro a Venezia, ma segnò anche la fine d'un modello cinematografico che Cayatte — come d'altronde altri suoi colleghi della «vecchia guardia» — faticarono a tener in vita. E quel fugace successo, di critica e di pubblico, non si ripetè per i film seguenti, da Vita coniugale (1963) a Morire d'amore (1970), inutilmente «aggiornati» nelle forme e nei contenuti. Il meglio di sé egli l'aveva dato, come si è detto, in quello che possiamo definire il suo «cinema giudiziario». Gianni Rondolino

Luoghi citati: Berlino, Parigi, Venezia, Verona