Prigioniero del proprio talento di Stefano Reggiani

Prigioniero del proprio talento Prigioniero del proprio talento Un ciuffo bianco su un viso affilalissimo, uno sguardo insieme febbricitante c malinconico, un'energia nervosa mista a inquietudine: così apparve in Italia Cassavetes per l'ultimo film; l'uomo sembrava una replica, del resto, del protagonista dell'opera, «Correnti d'amore», premiato a Berlino, dove appariva, regista c attore, ancora una volta al fianco della moglie Gena Rowlands. C'era in quel film un difficile rapporto tra fratello c sorella, un poco sopra le righe, minato dalla malattia dell'attore e dalla sua profonda scontentezza. Capitò a Cassavetes quello che talvolta succede a certi cineasti di talento, di rimanere presi nel proprio ruolo, di fare i registi a dispetto di se stessi, mentre un intenso rovello sui propri mezzi li attanaglia. Cassavetes inventò contro Hollywood una forma di realismo che faceva a meno dei piani di lavorazione e dei grandi budget produttivi. «Shadows» (Ombre) del '60 segnò a lungo un momento di rottura nella memoria dei frequentatori di cineclub. Il film racconta la giornata di tre fratelli nei a New Y^rk, il più vecchio fa il suonai jre di jazz, il fratello e la sorella più giovani sono negri-bianchi più esporti alle Helusion' il razzismo, tutti e tre vi : e amareggiati dalla vita. Certo, era aiA:hc una scommessa nata dall'Actor's Studio, creatura di Cassavetes, e si sentiva l'onda lunga delle avanguardie europee. La figura dell'autore e dell'interprete idealmente si confondevano, come si vedrà anche in seguito («Mariti» e di dieci anni dopo, del '70). Cassavetes fu sempre fedele al suo ruolo di attore-autore e, quando fu costretto (per soldi, soprattutto) a fare solo l'attore (si ricordano «Quella sporca dozzina», «Contratto per uccidere», «Rosemary's Baby») lo fu con efficacia, ma con malagrazia. Un regista italiano, Montaldo, che lo diresse ne! '69 in un film di mafia («Gli intoccabili-) ricorda un bravo attore, molto insofferente della regia altrui, votato ai propri fantasmi. Stava nella sua casa, come assediato dalla pellicola a sedici millimetri, dalle prove, dagli spionaggi che aveva accumulato, potremmo dire col titolo di un suo film del '68, circondato da «Faces», dai volti della gente. Non era sta¬ to un successo commerciale, bisogna aggiungere, il suo contatto con Hollywood, neppure la presenza di Judy Garland salvò un film sui bambini handicappati. Ma, appunto. Cassavetes fu coerente anche nei successivi sviluppi, baciati dal successo: c'era sempre il suo tormento dietro ai film. Il suo incontro sentimentale e professionale con Gena Rowlands fu l'occasione di un certo sussiego, di una certa esibizione intellettuale. In particolare, «La sera della prima", dubbi di un'attrice di teatro, mise in soggezione lo spettatore facendo presumere di avere da dire più cose di quante abbondantemente dichiarava. In com¬ penso, «Gloria», premiata ncll'80 a Venezia, fu una felice sintesi di avventura e di solitudine urbana. Tutti hanno in mente quella signora bionda che, per proteggere un bambino, impugna la pistola contro la mafia: va in mezzo alla strada con l'arma puntata e. pam pam, fa fuori una banda. Se cominciano a sparare anche le donne, forse giustizia sarà falla. I film con la Rowlands avevano probabilmente anche uno scopo indirettamente terapeutico, erano modi per saggiarsi, per mettersi a nudo. E a lei toccò magari il ruolo della testimone, di chi l'ha aiutato, come in «Correnti d'amore», a vivere. Stefano Reggiani d i f h il l 1982 John Cassavetes qui con la moglie Gena Rowlands in una foto che risale al 1982

Luoghi citati: Berlino, Hollywood, Venezia