Polidoro conteso tra Roma e il Sud

Polidoro conteso tra Roma e il Sud NAPOLI: DISCUSSIONI INTORNO ALLA MOSTRA D'UN PROTAGONISTA DEL '500 Polidoro conteso tra Roma e il Sud NAPOLI — Si avvia a conclusione la mostra di Polidoro da Caravaggio al Museo di Capodimonte a Napoli. Il 15 febbraio chiuderà i battenti, ma la sua eco è destinata a prolungarsi parecchio. A preannunciarlo ed sono già molti commenti e discussioni, concordi sull'importanza di una esposizione che ha illuminato quella che Testori ha giustamente definito «una delle più estreme ferite e abbaglianti avventure dell'intero Cinquecento». Discussioni alimentate e dalla grandezza del pittore e dal taglio dell'esposizione. La quale, approfittando di sorprendenti restauri, punta in modo particolare sulla sua ultima attività e cioè quella di Napoli e Messina, finora solo parzialmente nota Lo stimolo è venuto pure dalle tesi, diciamo, meridionaliste del curatore Pierluigi Leone de Castris. Ampiamente espresse nel catalogo edito dalla MondadoriDe Luca, concepito come un vero e proprio studio monografico dell'artista II quale, con il progredire delle ricerche, si rivela, sempre più, come uno dei maggiori interpreti di decenni cruciali della nostra storia Decenni durante i quali il movimento di riforma cattolica in Italia, chiamato dell'Evangelismo, non era facilmente distinguibile dai fllo-luterani e filo-protestanti in genere. Esperienza che si concluse con la morte, nel 1541, di Juan Valdés, animatore del cenacolo napoletano e la fuga dell'Ochino, Generale dei Cappuccini, presso Calvino a Ginevra Malgrado gli sforzi degli storici dell'arte, una pagina ancora con punti oscuri — l'atteggiamento di Michelangelo in primis —su cui la vicenda di Polidoro può gettare più di un lume. Questo, ad onta citila scarsità di notizie biografiche e la perdita di moltissime opere. Si ignora persino la data di nascita. Il Vasari dice soltanto che fino a 18 anni «portò lo schifo o vogliam dire vassoio della calce ai maestri» che costruivano le Logge Vaticane. Solo in seguito, per le sue doti artistiche, passò tra gli allievi di Raffaello. Sennonché nessun documento attesta tale partecipazione. Salvo piccole imprese, bisognerà attendere, oltre ai due famosi «paesaggi» di San Silvestro al Quirinale, le decorazioni delle facciate di palazzi romani, eseguite in società col misterioso Maturino. Circa 40 in pochi anni, ispirate ai rilievi antichi, che trasformarono il volto di Roma Ammiratissime: si disse che vedendole, «pure il gran Titiano si sbigottì». Ma era alle porte il fatale 1527 e il Sacco. In un libro recente Chastel ha spiegato, da par suo, quale trauma fu per gli intellettuali che vivevano a Roma Con conseguente diaspora, specie degli artisti. Ma, a differenza degli altri, Polidoro prese la strada del Sud. Sostò a Napoli, dove probabilmente era già stato. L'anno seguente si recò a Messina, dove trovò commissioni e gloria Non per facciate, bensì per pitture sacre e «ornamenti» con cui la città accolse, nel 1535, Carlo V reduce dalla conquista di Tunisi. Ancora pochi anni, poi la morte, secondo il Vasari, per mano di uno scellerato, avido scolaro. Era forse il 1543 e aveva poco più di 40 anni Come ho accennato, scarse le tracce anche per quanto riguarda le opere. Le facciate sono quasi tutte scomparse e le poche rimaste, più volte ridipinte e irriconoscibili. La produzione napoletana e messinese, per terremoti e dispersioni, polverizzata Si sono salvati solo alcuni dipinti e qualche frammento. Abbondanti invece 1 disegni, tuttora però in attesa di sicura attribuzione. I restauri, citati all'inizio, hanno per fortuna reso più leggibile un gruppo di piccoli quadri devozionali e varie partì di grandi composizioni, che C4>stituiscono il fulcro dell'esposizione. Aggiunte provvidenziali ad un corpus davvero esiguo, che non aveva finora favorito una lettura esaustiva della sua arte. Lettura che, dopo secoli d'incomprensione (basti ricordare l'invettiva del Burckhardt) si era divisa subito in due poli o tesi. Incentrata sull'attività romana oppure su quella meridionale. Quella del de Castris è, come ho detto, meridionalista. Cioè vi si accentua l'influenza della devozionalità e della cultura religiosa meridionali, assorbite dal pittore nel suo soggiorno durato circa quindici anni Specie per la vicinanza degli artisti ispano-fiamminghi, numerosi nel Viceregno. Non tutti sono d'accordo. E vedono già nella produzione romana i segni di un mutamento in chiave anticlassica, da attribuire soprattutto alle sue origini lombarde. Causa prima secondo questi studiosi, anche della sua tarda, drammatica pittura, così intrisa di moralità e dello spirito della riforma cattolica Due linee interpretative che, dopo questa mostra, forse potrebbero trovare un punto d'incontro. Peraltro già suggerito dal Marabottini, autore nel 1969 di un lavoro monografico fondamentale. Infatti, Polidoro risentì certamente del clima trovato a Messina, fiorente porto cristiano di frontiera, aperto alle correnti riformatrici e, per quanto concerne l'arte, agli influssi spagnoli e fiamminghi Tuttavia appare indubbio che, con le facciate romane, egli si era già distaccato dal classicismo raffaellesco. Mostrando una forte tensione morale, diversa, per esempio, dalle raffinate inquietudini del toscano Perin del Vaga e del più intellettualistico Rosso Fiorentino, per citare due artisti a lui molto vicini H Lomazzo, pittore e saggista lombardo della seconda metà del Cinquecento, che vide le facciate, insiste molto sulla "terribilità», la «veemenza», la *gran furia» delle figure affrescate da Polidoro. Si può dedurne che, trasferitosi nel Sud, il pittore vi trovò terreno propizio alla sua natura appassionata alla violenza espressionista, alla sua interpretazione drammatica della storia Qui, più di quanto gli sarebbe stato consentito nella sede papale, fu libero di esprimere le proprie aspirazioni riformiste e quella Imitatio Christi che caratterizzò l'Evangelismo. Acutamente la Borea che prima in Italia studiò a fondo il pittore, scrisse che la sua fu «una rappresentazione icastica di uomini soggetti a vita e morte». Una visione, la sua carica di spiritualità, che anticipava il concittadino Michelangelo Merisi pujs lui mezzo secolo dopo, esule in quei luoghi. E, come è stato ora sottolineato, preannuncia il Goya della Quinta del Sordo. I restauri hanno rilevato che la sua pittura si fece sempre più scabra e severa, quasi monocroma, senza disegno preparatorio, essenziale e nutrita fino all'ultimo di naturalismo lombardo. Radici profonde mai dimenticate. Non per niente, anche negli ultimi quadri, persino in quelli solo siglati, si firma: Polidorus Caldara Caravagiensis. Fedele alle sue origini anche quando inclinerà, come nel periodo estremo, verso quello che è stato chiamato para-michelangiolismo. n quale, come si sa, contraddistinse il particolare clima del momento. Drammatico e disperato, comune a quegli spiriti che de Castris ricorda come «perdenti». Citando, opportunamente, il fallimento dei colloqui di Ratisbona, tesi alla riconciliazione con i protestanti e l'inizio dei processi per eresia. Una svolta tragica nelle "icende della Chiesa e dell'Europa che l'arte di Polidoro documenta in modo esemplare. Francesco Vincitorio Polidoro da Caravaggio: «Testa d'uomo barbuto e di ragazzo»