Le collere del Tigre di Sergio Romano

Le collere del Tigre CLEMENCEAU, NUOVA BIOGRAFIA Le collere del Tigre Grazie alle ultime tendenze della storiografìa francese la «Grande Rivoluzione», di cui celebriamo quest'anno il duecentesimo anniversario, è una «stella morta». Dal firmamento della storia essa lancia raggi freddi che illuminano e riscaldano soltanto le notti degli studiosi. Come avvenimento politico, per usare un'espressione di Berlinguer a proposito della Rivoluzione d'Ottobre, essa ha perduto la sua «forza propulsiva». Per tutto il secolo scorso e parte di questo invece la Rivoluzione francese fu con la rivoluzione americana, in positivo e in negativo, una sorta di prontuario o manuale per tutta la classe politica europea, il riferimento implicito o esplicito di qualsiasi progetto politico 0 sociale. .Per Georges Clemenceau, nato nel 1841 e morto nel 1929 alla veneranda età di ottantotto anni, la Rivoluzione e 1 suoi ideali furono addirittura il momento ab urbe condita da cui occorreva far decorrere l'inizio di una storia nuova. Se qualcuno osava discutere le sue vicende o fare distinzioni di valore fra i suoi diversi momenti, egli gridava dalla tribuna dell'Assemblea nazionale che essa era un «blocco», da prendere o lasciare nella sua interezza. Quando scriveva editoriali per i molti giornali che diresse o fondò nel corso della sua vita —- LaJustice, L'Aurore, L'Homme Libre, L'Homme Encbaini — i suoi modelli stilistici e umani erano i grandi pamphlétaires della rivoluzione, da Desmoulins a Marat. Quando difendeva Dreyfus o suggeriva a Zola il titolo {J'accme!) dell'articolo che più contribuì a riscattare l'onore del piccolo maggiore ebreo ingiustamente accusato di spionaggio, non facevache applicare concretamente la grande Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Quando nel 1919, presidente del Consiglio di un Paese'vincitore, sedette nel Salone dògli Specchi a Versailles di fronte ai volti pietrificati dei plenipotenziari tedeschi, certamente persuaso di aver vinto la guerra in nome degli «ideali dell'89». E quando det te mano a capovolgere la carta d'Europa lasciando una dozzina di repubbliche dove regnavano, sino allo scoppio della guerra, tre imperatori, ebbe certamente la convinzione che abbattere troni e esiliare sovra ni era un'opera di fedeltà intel lettuale allo spirito del 1792. Dei grandi giacobini Clemenceau aveva tutte le qualità e tutti i difetti. In una vasta biografia (1077 pagine) apparsa ora a Parigi presso Fayard, Jean-Baptiste Duroselle non nasconde i suoi sentimenti di simpatia per il proprio personaggio, ma ne rivela anche, all'occorrenza, la collera, le intemperanze verbali, gli entusiasmi tenaci e mal riposti, gli errori di giudizio, lo straordi natio egocentrismo. * * Maestro degli studi di storia delle relazioni internazionali alla Sorbona per più di quaran t'anni, allievo di Pierre Renou vin e particolarmente sensibile, per formazione intellettuale, ai rapporti tra politica estera o «forze profonde» della società nazionale, Duroselle non potè va scegliere, per la sua colossale fatica, personaggio migliore. Gran parte della vita politica di Clemenceau, infatti, è compresa tra due avvenimenti che furono al tempo stesso nazionali e internazionali, j Entrò in politica nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone 111 a Sedan, mentre la Francia diventava nuovamente repubblica. E ritornò al potere, dopo due lunghi «esili», nel novem bre del 1917, in un momento (l'avanzata dei tedeschi su Ri ga, Caporetto, la Rivoluzione d'Ottobre) in cui le condizioni dell'Intesa erano pessime e le sorti della guerra incerte. ; Fra queste due date si svi luppa una carriera politica anomala. Giornalista e tribuno di grandi doti intellettuali e oratorie, Clemenceau nacque, per cosi dire, «all'opposizione». Fu antibonapartista, naturalmente, e sindaco di Montmartre all'epoca della Comune, ma profondamente ostile agli eccessi del governo rivoluzionario. Fu «gambettiano», ma finì per diventare negli anni successivi il più aurorevole avversario di Gambetta fra gli uomini dello schieramento re¬ pubblicano e si fece una solida reputazione di «affossatore di ministeri». Fu radicale e progressista, ma quando andò finalmente al potere nel 1906 divenne la bestia nera dei sindacati e fu per la nuova sinistra dei primi del secolo uno spietato briseur de grèves. Era profondamente nazionale e antitedesco, ma tutte le sue energie nei primi tre anni di guerra furono dirette contro il governo, al punto che L'Homme Encbainé aveva, grazie al censore, più chiazze bianche che colonne stampate. Scavando con l'entusiasmo di un giovane ricercatore in dozzine di archivi pubblici e privati, l'autore ha ricostruito attentamente la formazione di Clemenceau, la sua cultura politica e letteraria, i suoi gusti artistici e filosofici. Era razionalista e positivista, nello spirito degli intellettuali della sua generazione, ma profondamente attratto dal mito dell'azione e incline, talvolta, ad agire prima di riflettere. ir * Era ateo, ma segretamente sollecitato dal mistero delle religioni e sacerdote di un proprio «deismo» in cui l'azione e la patria tenevano il posto di Domineddio. Era tenacemente democratico e tollerante quando erano in discussione i «diritti dell'uomo e del cittadino», ma duramente autoritario quando occorreva affermare un principio o proclamare i diritti superiori della nazione. Era «egualitario», nel senso giuridico che la parola aveva assunto all'epoca della «grande rivoluzione», ma incapace di considerare i «problemi di classe» in una prospettiva economica e sociale. Era un «giornalista della politica» come tutte le nuove personalità a cavallo del secolo, da Churchill a Lenin, ma anacronisticamente imbevuto al tempo stesso della retorica dell'89 e di concetti che appartenevano al passato. Uomini di questa pasta sono generalmente, nella storia di una nazione, oggetti scomodi e superflui. Approfittando della sua «amicizia» per Cornelius Herz e del suo apparente coinvolgimento nello «scandalo di Panama», la Francia si liberò di lui una prima volta nel 1893. E si liberò di lui una seconda volta nel 1909 quando egli dimostrò di essere poco attento alle suscettibilità del Parlamento. Ma la guerra po¬ chi anni dopo gli restituì un ruolo nazionale. Tutti i suoi difetti — la dàjpzza verbale, la vis polemica, il patriottismo feroce e sospettoso, il concetto giacobino dello Stato e della nazione, l'autoritarismo antisindacale — divennero nei 1917 altrettante virtù. Chiamato alla presidenza del Consiglio nel novembre 1917 governò il Paese con un pugno di ferro ma seppe restituirgli il sentimento della grandezza e la volontà della vittoria. I grandi baffi spioventi, gli zigomi alti, gli occhi tagliati come fessure sotto le ciglia arruffate, il viso pieno di rughe e il kepi di lana che si piantava in testa quando visitava le trincee e i campi di battaglia, divennero leggendari. Non era più Clemenceau; era, secondo un nomignolo, che gli rimase attaccato fino alla fine della vita, il «Tigre». Salvata dalla sua tenacia e dalla sua testardaggine giacobina, la Francia opportunista e ragionevole lo mise nuovamente in disparte. Quando nel 1919 egli sperò di terminare la sua vita politica all'Eliseo si trovò di fronte, come avversario, Paul Deschanel con cui si era battuto in duello il 27 luglio del 1894. Sembra che il povero Deschanel, uomo pavido e pessimo spadaccino, indietreggiasse continuamente di fi onte alla spada dell'avversario e che Clemenceau, fermatosi, gli avesse detto con ironia: «Ci lasciate, signore?». Ma i duelli parlamentari di fronte a una classe politica stanca di eroismi e desiderosa di essere governata borghesemente si svolgevano secondo altre regole. Deschanel divenne presidente della Repubblica e Clemenceau, per la terza volta, il più brillante retraìté di Francia. Aveva settantotto anni, ma questo non gli impedì di fare tre grandi viaggi (in Egitto, in India, negli Stati Uniti), di innamorarsi platonicamente di una donna che aveva quarant'anni di meno, e di scrivere un libro di filosofia, uno studio biografico di Claude Monet, un saggio su Demostene e un libro sulla guerra in polemica con il maresciallo Foch. Le cento pagine che Duroselle dedica agli ultimi dieci anni della vita di Clem'nceau non sono meno appassionanti delle novecento che egli dedica ai primi ottant'anni. Sergio Romano