Romantico ritratto con clarinetto e sintetizzatore
Romantico ritratto con clarinetto e sintetizzatore «Private City» di John Surman Romantico ritratto con clarinetto e sintetizzatore SUONI di flauti sovraincisi, un tappeto «minimale» di sintetizzatori programmati e poi le prime note di clarinetto basso, inconfondibili: è l'inizio di «Portrait of a Romantic», brano di aperara di «Private City», ultimo album del sassofonista e multistrumentista ingelse John Surman (disco e Cd su etichetta ECM). A Surman si addice la solitudine: «Private City» è il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 1979 con il fortunatissimo «Upon Reflection» e proseguita sei anni più tardi con «Withholding Pattern», in cui il musicista compone, arrangia e suona tutti gli strumenti, ricorrendo all'fcarmonteer (moltiplicatore di suoni), al delay (un'eco molto persistente) ed altri sofisticati mezzi elettronici. Un vero e proprio «tour de force» su vinile, che sfocia poi nei concerti dal vivo in uno spettacolo di notevole atmosfera, dove all'abilità strumentale si accompagna quella di ingegnere sonoro. John Surman ha iniziato negli Anni 60 con il blues, entrando in seguito nell'orchestra di Mike Westbrook come virtuoso del sax baritono. Dalla militanza orchestrale — una palestra efficace sotto diversi punti di vista — è passato alle piccole formazioni, con talenti del jazz britannico quali Dave Holland e John McLaughlin: insieme al chitarrista, ha inciso nel 1969 due ottimi Lp, «Where Fortune Smiles» e «Extrapolation» — quest'ultimo ancora reperibile per i tipi della Polydor. Le esperienze successive lo vedono con Stu Martin (batteria) e Barre Phillips (contrabbasso) e con il trio Sos, tutto sassofoni. In quegli anni. Surman abbandona la studio del baritono per dedicarsi al soprano e ai sintetizzatori e, in parallelo, realizza alcuni album insieme a importanti musicisti europei e statunitensi come John Abercrombie, Miroslav Vitous, Jack DeJohnnette. La svolta elettronica e la scelta dei dischi in solo lo ha fatto conoscere ad un pubblico più ampio, magari alienandogli le simpatie della critica orto¬ dossa. La miscela di suoni sintetici e di richiami al folclore britannico, di fraseggio jazzistico e di effetti suggestivi simili a certe polifonie classiche caratterizzano anche questo -Private City», che non si discosta sostanzialmente dalle opere precedenti. La musica di Surman dà talvolta l'impressione di essere la colonna sonora di una coreografia contemporanea; infatti, due tempi di «Upon reflection» erano stati creati per Carolyn Carlson, così come certi episodi dell'ultimo disco sono stati appositamente realizzati per l'omonimo balletto di Susan Crow. Rispetto ai lavori precedenti, «Private City» è meno accattivante, privo di brani-vetrina di presa immediata sull'ascoltatore: eppure, nonostante qualche momento di stanchezza qua e là, il fascino del timbro sassofonistico e di certe soluzioni armoniche c'è sempre. Ivo Franchi
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