Inseguivo il canto che costruì le rocce

Inseguivo il canto che costruì le rocce BRUCE CHATWIN, L'ULTIMO ARTICOLO: «ESPLORANDO LWATICABnJTA' INDOMABILE DELL'UOMO» Inseguivo il canto che costruì le rocce Venerdì scorso, ricordando in questa pagina Bruce Chatwih, morto a 48 anni, Masolino fi'Amico ha parlato dell'ultimo articolo dello scrittore inglese appena apparso sulla New York Review of Books. Pubblichiamo qui un ampio stralcio di quell'articolo, scrìtto per presentare il lavoro di un-'musicista sudafricano, compositore di musica ispirata a quella indigena. NELL'ESTATE del 1986 portai a termine il volume Vie dà canti in condizioni di salute molto difficili. Avevo infatti contratto in Cina uria malattia rarissima, causata da un fungo che intacca il midollo spinale. Con la certezza di!dover morire, avevo allora deciso di concludere il mio lavoro e di affidarmi alle mani dej medici. In tal modo, la mia opera si sarebbe conclusa. La terza e ultima parte del mio manoscritto era.una raccolta abbastanza scontata di citazioni e di illustrazióni,' destinata ad appoggiare e a documentare gli assunti fondamentali del libro. Là misi insieme nel periodo estivo, in giorni di calura soffocante, tutto imbacuccato in sciarpe e scialli, tremando di freddo davanti alla; stufa della cucina. Era un'autentica lotta ccjntrp il tempo. ! ; Vie dei canti inizia, con un'indagine del labirinto di sentieri invisibili che gli Aborigeni australiani chiamano le «Orme degli Antenati» oppure «la Via dilla Legge». Sono quei percorsi che gli Europei conoscono; còme le «Vie dei canti» o le «Piste di sogno». "Oli Aborigeni credono che l'amenato totemico di ciascuna specie crei se stesso dal fango del proprio pozzo d'acqua primordiale. Riesce a emergerne di un passo e canta il proprio nome, che è il verso iniziale di un canto. Poi fa un secondo passo, che diventa una sorta di chiosa al primo verso e che, di conseguenza, crea un distico. Si avventura quindi in un viaggio per il territorio, passo dopo passo, orma dopo orma, dando esistenza ai mondo con il proprio canto: rocce, scarpate, dune di sabbia, alberi della gomma e via di seguito. Speravo di valermi di questo concetto stupefacente come di una specie di trampolino per esplorare l'infaticabilità innata e indomabile dell'uomo. Poi mi ripresi in maniera addirittura miracolosa. Il mio libro usci nel giugno del 1987. Il giorno in cui apparve in libreria vi fu uno sciopero dei controllori di volo francesi e dovemmo quindi attraversare la Manica coti l'hovercraft. Eravamo in ritardo di quattro ore. Mi imposi di non comprare i giornali e di non leggere le recensioni. Ma cedetti e comprai Vlndependent di Londra: credo di riferire correttamente il parere del recensore, dicendo che secondo lui il mio libro era «insopportabilmente pretenzioso». Salimmo su un treno locale da Boulogne a Parigi. Sul sedile dietro al mio, due musicisti lavoravano a una partitura. I loro strumenti se ne stavano sulle reticelle portabagagli sospese sulla loro testa. Erano Rostropovich e Anne-Sophie Mutter. Lo presi come un buon auspicio. Il mio libro ' andò bene. Quando lo vidi in cima alle classifiche dei best selkrs, ebbi una crisi di fiducia. Possibile che facersi parte anch'io della schiera degli scrittori di consumo? Poco tempo dopo però mi convinsi che non aveva senso generalizzare e formulare leggi in base a spunti così labili e tenui e decisi quindi di scrivere un dialogo immaginario nel quale sia al narratore sia all'interlocutore veniva concessa la libertà di sbagliare. Era un concetto assai difficile da comprendere, per i lettori di lingua inglese. Ne scaturì una lunga disputa, che verteva sul fatto se il libro dovesse essere considerato o no un'opera narrativa. «Opera narrativa!», insistevo io. «Sono stato io a inventarlo!». Un recensore spagnolo non ebbe alcun tentennamen■ to. Un libro de viaje era un libro di viaggio e una novela de viaje... be', c'era il precedente del Don Chisciotte. Com'era comprensibile, gli accademici si mostrarono prudenti. Io però rifiutai di scostarmi dagli assunti di fondo che proponevo nel libro: —Come mi ha detto una paleontologa sudafricana, la dottoressa Elizabeth Vruba, «L'uomo è nato nell'avversità. E l'avversità in questo caso è l'aridità». L'homo sapiens si è evoluto una volta, e una volta soltanto, nell'Africa meridionale, qualche tempo dopo la prima glaciazione settentrionale (circa 2.600.000 anni fa), allorché si formò il Polo Nord, il livello del mare scese repentinamente, il Mediterraneo si trasformo in un lago salato e il groviglio della foresta sudafricana cedette agli arbusti della savana. — L'homo sapiens era un essere nomade. Faceva lunghi viaggi stagionali interrotti da periodi di soggiorno stabile, «periodi di magra» come la Quaresima. — I maschi dell'homo sapiens erano cacciatori, mentre le femmine raccoglievano vegetali e piccola selvaggina. Ma la funzione dei loro viaggi era quella di stabilire contatti amichevoli con le popolazioni confinanti vicine e lontane. Gli uomini risolvono il problema dell'incrocio parlando, mentre gli animali combattono per riuscirci. — L'uomo è «naturalmente buono» nel senso in cui ne parlano Rousseau e il Nuovo Testamento. Non c'è posto per il male, nell'evoluzione. L'istinto a combattere, negli uomini e nelle donne, è stato concepito come sistema di protezione contro gli animali feroci e contro gli altri orrori della macchia primeva. Quando ci si stabilisce da qualche parte, questi istinti tendono a disinnescarsi. Si veda la storia di Caino che :i dà una dimora e di Abele che vagabonda. — L'uomo è una creatura che parla, una creatura che canta. Canta e il suo canto riecheggia ovunque nel mondo. Il primo linguaggio è stato quello del canto. La musica è l'arte suprema. Ricevetti molte lettere dai lettori di Vie dei canti E, di tanto in tanto, la posta del mattino mi offriva qualche tesoro mira¬ coloso. Una signora del Connecticut mi mandò una fotocopia di Figlie della donna di rame di Anne Cameron, in cui una vecchia donna Nootka descrive come i suoi antenati navigassero gli oceani con le loro canoe. Tecnicamente parlando, i Nootka, i Bela Coola, gli Haida e i Kwakiutl erano ancora allo stadio della caccia e dell'ammasso; ma il mare pullulava a tal punto di salmoni e le foreste abbondavano talmente di selvaggina, che essi decisero di fermarsi: si costruirono grosse case di legno e si organizzarono in classi, con nobili, lavoratori e schiavi. Ecco il canto della donna che reggeva il timone: «Tutto ciò che noi conosciamo sul movimento del mare è conservato nei versi di un canto. Per migliaia di anni siamo andati dove volevamo andare e siamo tornati a casa sani e salvi grazie a questo canto. Nelle limpide notti abbiamo avuto le stelle come guide e nella nebbia a condurci sono state le correnti e i flussi che scorrono nel Klin Otto e in esso si trasformano...'». Klin Otto era la corrente salata che andava dalla California alle Isole Aleutine. «C'era un canto per andare in Cina e un canto per andare in Giappone, un canto per la grassa isola e un canto per l'isola più piccola Tutto ciò che lei doveva sapere era il canto. Se lo sapeva, sapeva anche dove si trovava. E, per tornare, bastava che cantasse la canzone alla iovescia». Una mattina del febbraio scorso, durante un tremendo attacco di malaria, la posta mi recò una lettera davvero stuzzicante di un compositore sudafricano di cui non avevo mai sentito parlare, Kevin Volans: «E' da un po' di tempo che desidero scriverle, ma la tentazione di aggiungere al mio scritto un invito presuntuoso... quello di venire con me in un viaggio di ricerca e di registrazione nella zona di Lesotho... mi ha finora trattenuto». I titoli dei suoi lavori erano affascinanti: L'uomo bianco dorme, Colei che dorme con un minuscolo lenzuolo. Ricoprilo d'erba, Studi sulla storia Zulù, Danza dell'inginocchiarsi. Danza del balzare, A caccia, Raduno. La febbre era troppo alta perché io potessi far andare subito il nastro di Volans, ma dopo un po' riuscii finalmente a metterlo nel registratore. Quel giorno tutto era avvolto in un gelo diaccio e abbagliante e la mia camera da letto, tutta pareti bianche e bianche veneziane, era striata di luce. Io scottavo di febbre. Mi lasciai andare sul letto e rimasi sbalordito. Stavo ascoltando L'uomo bianco dorme, musicato per due clavicembali, viola da gamba e percussioni. Era qualcosa che non avevo mai ascoltato in precedenza e che nemmeno ero mai riuscito a immaginare. Non derivava da nulla e da nessuno. Era semplicemente giunta, arrivata fino a me. Era libera e viva. Sentivo il suono dei cespugli di rovi dell'Africa, degli insetti, del frusciare del vento per l'erba. E tuttavia in quella musica non c'era nulla che potesse ap¬ parire sconosciuto a Debussy o a Ravel. Chiamai subito Volans a Belfast, dove teneva un corso di composizione alla Queen's University. Fu la prima chiamata registrata dalla sua nuova segreteria telefonica. Nel giro di pochi giorni, Volans era al mio capezzale. Avevo trovato un amico per la vita. Brace Chatwin Copyright «The Ne» York Revkwof Books» e per nulla «La Stampa»