«Argo», 15 anni di misteri di Vincenzo Tessandori

«Argo», 15 anni di misteri L'intricata «spy story» deiraereo militare caduto a Marghera «Argo», 15 anni di misteri «Quando un aereo vola, può cadere» fu il primo commento dei servizi segreti • Poi emerse l'ipotesi di un sabotaggio degli 007 israeliani, in risposta al rilascio di cinque palestinesi avvenuto sullo stesso velivolo La quota' troppo bassa, un'errata manovra, un'elica che sfiora un lampione e l'aereo si schianta su una strada, a Marghera, presso la laguna di Venezia. I rottami rischiano di provocare una catastrofe, distruggono una ventina di auto in sosta e investono gli Uffici dello stabilimento «Monteflbre»: miracolosamente illesi i venti impiegati. Morti, invece, i quattro sull'apparecchio: Anano Borreo, colonnello dell'Aeronautica; Mario Grande,' tenente colonnello; Francesco Bernardini e Aldo 8chiavone, marescialli. S'ignora che fossero agenti del servizi segreti. Le 9,30 del 23 novembre 1973, un giorno freddo e piovoso. L'incidente altro non sembra se non una storia di cronaca ordinaria. I giornali gli dedicano scarso spazio, gli almanacchi neppure lo registrano. Altri sono i fatti che sconi"ìi(r.-,"o l'opinione pubblica: a Torino, in quello stesso novembre, la mafia sequestra Luigi Rossi di Montelera; il 17 dicembre, a Fiumicino, terroristi arabi a colpi di bombe a mano uccidono 30 passeggeri su un aereo della Pan Aiti e altri due a raffiche di mitra. L'incidente dell'«Argo 16» non pare certo il capitolo centrale di una fra le più complesse e feroci spy story. L'epilogo tenta ora di scriverlo il giudice istruttore Carlo Mastelloni, di Venezia, ma malgrado la strada fatta, punteggiata dagli arresti di ufficiali e «007» reticenti, non pare vicino alla parola "fine'. 'Quando un aereoplano vola, può cadere', tu il primo commento alla notizia, arrivata per telefono a Forte Braschi, a Roma, quartier generale dei servizi segreti italiani. Ma quello non era un comune aereo da trasporto, i servizi lo usavano per le operazioni più riservale e una' quindicina di giorni avanti ,era servito per consegnare' ai libici cinque terroristi sorpresi e arrestati a Roma con un lanciarazzi. E cosi già si dubitava che si trattasse di una fatalità. Ma i sospetti rimasero sospetti, d'altro canto l'inchiesta non offri verità sicure e i motivi del disastro vennero fatti risalire a una 'causa imprecisata». Ma a Forte Braschi si erano presto fatti una loro opinione: il Dakota sarebbe precipitato non per fatalità ma per un sabotaggio. L'inchiesta aveva chiarito che il pilota non soltanto era molto esperto, ma aveva già compiuto più. volte la rotta fatale e anche in condizioni atmosferiche peggiori. L'apparecchio era partito dall'aeroporto Marco Polo, presso Venezia, dopo le 8,40. Nessuno, allora, dette troppo peso al fatto che, contrariamente al solito, il bimotore non era stato parcheggiato all'interno di un hangar ma era rimasto sulla pista per tutta la notte. Oli interrogatori, gli esami, i confronti, le deposizioni dei testi non sembrarono gettare alcuna luce sul disastro. L'inchiesta procedette fra il disinteresse quasi totale. Eppure, fanno capire gli inquirenti, qualcuno allora si preoccupò di distrarre l'attenzione da quell'incidente cosi tragicamente banale. Ma fra gli uomini dei servizi segreti si era diffuso un sospetto che, per qualcuno, era forse una certezza, a manomettere il Dakota erano stati gli uomini dell'«Istituto» di Tel Aviv, il Mossad, il servizio segreto israeliano. Perché? Per un avvertimento, si disse: gli israeliani non avrebbero gradito la politica mediterranea portata avanti dall'Italia, la consideravano troppo filo-araba; la goccia che, quella volta, aveva fatto traboccare il vaso sarebbe stata la riconsegna dei terroristi, n viaggio segreto del vecchio bimotore fino a Malta, dove ifeddayn furono consegnati ai libici e non al- l'Olp 'perchè i rapporti coi palestinesi erano meno stretti di oggi», sarebbe stato seguito miglio dopo miglio dagli agenti di Tel Aviv. Quando l'aereo atterrò all'aeroporto della Valletta, ad attenderlo c'era un fotogwfo che immortalò equipaggio e passeggeri. «Molto casualmente», una copia di quelle foto venne passata a un quotidiano locale che la pubblicò. -Nel linguaggio dello spionaggio questo è un avvertimento esplicito rivolto a un amico non più fidato. Significa: "State attenti a quello che fate, siete controllati"; osservano gli inquirenti. Gerusalemme ha sempre respinto sdegnata quella «voce». I servizi di allora erano molto impegnati anche sul fronte interno e ancora di più lo sarebbero stati nel futuro immediato, aperto in modo così tragico dall'attentato al treno Italicus. Dunque, guerre fra spie e guerre parallele, all'interno e fuori dai confini. Silenziose, segrete, micidiali. Mai dichiarate, ma guerre. E, forse anche per questo, si tentò subito di sfumare, distogliere, cancellare, coprire. Insomma, se fosse venuto in luce l'affare «Argo 16» si correva il rischio di mandare in frantumi equilibri divenuti sin troppo fragili o spezzare vecchie alleanze, »In tempo di guerra la verità è cosi preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie', disse un giorno Winston Churchill. Intrecci infiniti. Al gran souk della notizia i nostri servizi avevano trovato l'informazione che terroristi avrebbero assaltato l'aeroporto romano e il responsabile dell'Ufficio D, generale Gian Adelio Maletti, un giorno dichiarò: «/o personalmente, tre giorni prima di Fiumicino, ho portato al ministero dell'Interno un rapporto con il quale mettevo in guardia sulla possibilità di attentati». Non l'avevano ascoltato, lamentò. Più tardi Maletti si trovò invischiato in situazioni fin troppo roventi, lo arrestarono e quando uscì preferì emigrare. Scelse il Sud Africa, e ancora oggi sarebbe laggiù, irraggiungibile per il giudice Mastelloni. Ma una volta, nel suo esilio, ha deposto davanti al giudice istruttore veneziano Felice Casson. E avrebbe accenato al fatto che 'l'aereo di Marghera era stato manomesso». Quattro agenti sacrificati, qualcuno anche a Forte Braschi avrebbe voluto ribellarsi, si dice. Nessuno lo fece. Ci si limitò a far circolare i sospetti. E questi sospetti li nutriva anche il generale Ambrogio Viviani, oggi militante radicale, ma allora capo del controspionaggio. E un giorno ha confermato: 'Quello di Marghera, a mio giudizio, fu un avvertimento del Mossad, un consiglio un po' cruento per dirci di smetterla con Gheddafi e con il terrorismo palestinese». Da quel momento è entrato nell'inchiesta sull'«Argo 16» aperta dal giudice Mastelloni, che, oltre ad altri sette ex alti funzionari del Sid, coinvolge il responsabile del Mossad di Roma e il suo braccio dèstro, n giudice sospetta che qualcuno abbia distrutto un fascicolo fondamentale e l'altro giorno il magistrato ha inviato una serie di mandati di comparizione. Già una volta Viviani ha deposto davanti a Mastelloni ed è finito in manette. Ora dice: 7'Ritirdr^-^uoTÌla I storia dell'Argo, ora che è sa¬ lita questa ondata filo-palestinese, può anche nascondere un tentativo di tipo antiisraeliano, insomma potrebbe essere una strumentalizzazione». Ma quante verità sono ancora coperte? Viviani tiene a chiarire: 'Allora ero capo del controspionaggio, di quella sezione incaricata, come dice il regolamento, di "prevenire, ostacolare e reprimere l'attività di spionaggio svolta in Italia da agenti segreti a dai loro collaboratori". Dell'Argo 16 non seppi niente direttamente, e non potevo sapere perché riguardava chi si occupava di terrorismo. Certo, lo dichiarai allora e lo ripeto oggi, i sospetti di un attentato circolavano in ambienti qualificati. Ma erano una supposizione generica». 'Io nutrivo quei sospetti — prosegue Viviani — e anche Aldo Moro la pensava cosi. Ma se ci fosse stato qualcosa di concreto, la magistratura sarebbe stata informata. Nessun servizio accetta con indifferenza che quattro dei suoi vengano ammazzati così, per motivi politici o di pressione. Dopodiché, se si è trattato davvero del sabotaggio di un servizio segreto, di quel servizio, c'è da esser sicuri che non sono state lasciate trarne». Le ind' -.ni, iniziate otto mesi io. .ridono a stabilire se qualcuno abbia fatto sparire le carte top secret dell'inchiesta informativa sul disastro fatta dagli uomini di Forte Braschi. Quando al direttore dei servizi segreti, ammiraglio Fulvio Martini, venne consegnata un'ordinanza di esibizione, si scoprì che il fascicolo era introvabile. Eppure, fra le cose non dette e non scritte, il giudice avrebbe trovato tracce che lo porterebbero a pensare che qualcuno, forse la notte fra il 22 e il 23 novembre '73, abbia 'compiuto un intervento sui comandi dei piani di coda-. Vincenzo Tessandori