Ai giapponesi piace poco il Bot di Fernando Mezzetti

Ai giapponesi piace poco il Bot Le glandi finanziarie di Tokyo diffidano del nostro sistema fiscale Ai giapponesi piace poco il Bot TOKYO — Davvero i giapponesi non conoscono il mercato mobiliare italiano? Davvero non sanno che la redditività dei titoli con cui la Repubblica alimenta il proprio debito è superiore a quella dei bond del Tesoro americano, e meno soggetta alle scoppole del crollo del dollaro? Una delegazione di agenti di cambio milanesi è venuta nei giorni scorsi ad illustrare agli operatori la borsa italiana. La loro visita è coincisa con quella della commissione Finanza e Tesoro del Senato, affiancata da Franco Piga che, quale presidente della Consob, ha avuto lunghi incontri con il suo omologo della capitale giapponese. Sponsorizzata dalla Nomimi, la maggiore security house del mondo, la presentazione del mercato è stata inquadrata in una visione globale della nostra economia delineata da Guido Carli, mentre Lucio Rondelli del Credito Italiano ha illustrato il settore dei titoli di Stato. Un'iniziativa analoga era stata realizzata l'anno scorso per prima dalla Banca d'Italia, per la quale erano venuti il suo direttore centrale per le attività operative, Ciocca, e il responsabile per i mercati finanziari e monetari, Bianchi. Ma poco effetto essa ha finora avuto. Gli shogun dello yen, che da soli tengono in piedi un terzo del debito pubblico Usa, non si sono mossi, pur avendo nel frattempo aperto uffici a Milano con fior di analisti. L'operazione promozionale dei giorni scorsi, in sé riuscita, non poteva aggiungere nulla a quanto i giapponesi sapessero anche grazie al lavoro di analisi, se non di intelligence economica e finanziaria che conducono su tutti i mercati. Se non si muovono verso l'Italia, se per ora lasciano Bot e CCT al loro destino, le ragioni sono altre. Secondo gli operatori italiani a Tokyo l'impedimento più importante è un problema fiscale: e c'oè che nessuno sa come l'operatore nipponico possa farsi rimborsare una quota di tassazione riconosciutagli dagli accordi fra i due paesi. In Italia per le obbligazioni di Stato c'è la ritenuta alla fonte del 12,50 per cento. In base all'accordo, che riconosce il limite giapponese del 10 per cento, gli operatori avrebbero diritto al rimborso del 2,5 per cento. Ma non esiste la normativa precisa sul rimborso; ignoti e indefiniti, in termini di anni, sono i tempi. Lo stesso è per i dividendi azionari: essi sono soggetti in Italia a una trattenuta del 32,4 per cento, mentre in base al trattato il carico massimo può essére solo del 15 per cento. Il problema è stato più volte discusso tra le due parti in incontri tra autorità finanziarie e monetarie dei due paesi. Ma nonostante l'impegno della Banca d'Italia non è stata ancora trovata una soluzione né sul piano legislativo né su quello amministrativo. Le grandi securities hanno aperto i loro uffici a Milano, anche in funzione strategica in vista del 1993, ma nessuno sembra muoversi per ora. Al problema fiscale se ne aggiungono altri, come la scarsa profondità del nostro mercato. «/ giapponesi — dice un esperto del settore — si muovono a colpi di cinquanta, cento miliardi di lire per volta. E' la dimensione minima per loro, anche perché la gestione dì un fondo è tanto meno onerosa tanto più esso è cospicuo. L'acquisizione non sarebbe un problema, ma esso sorge nel caso si vogliano liquidizzare i titoli. Metterne in un colpo solo per cinquanta, cento miliardi sul mercato, vorrebbe dire sconvolgerlo. In più ci sono le farraginosità italiane. Qui se alle dieci del mattino si decide di vendere, alle undici si vuole avere materialmente il ricavato. In Italia, nonostante le liberalizzazioni, non è così per incrostazioni di diversa natura: Si deduce da tutto ciò, quindi, che, specie per gli aspetti fiscali, non è che i giapponesi non sappiano. Sanno anche troppo. Fernando Mezzetti

Persone citate: Ciocca, Franco Piga, Guido Carli, Lucio Rondelli

Luoghi citati: Italia, Milano, Tokyo, Usa