Etty e la forza di Dio di Sergio Quinzio

Etty e la forza di Dio HHLESUM: UNA DIVERSA ANNA FRANK Etty e la forza di Dio Il convegno che si è svolto di recente a Roma su Etty Hillesum, la ragazza ebrea olandese morta ventinovenne ad Auschwitz, ha messo in luce' anzitutto la complessità della sua personalità e della sua esperienza, che sono state interpretate in modi diversi. C'è chi ha visto nella Hillesum una mistica cristiana, chi ha insistito sulla sua ebraicità, chi ha esaltato piuttosto la qualità letteraria del suo Dmrio 1941-1943 (tradotto in italiano da Adelphi) e delle sue lettere. Etty nasce nel 1914 in una famiglia ebrea perfettamente integrata nella società borghese olandese, malgrado la provenienza russa della madre Rebecca. Non riceve nessuna formazione ebraica, e per lei la Bibbia, dalla quale ama citare, è indifferentemente la Bibbia ebraica e il Nuovo Testamento. Quando le si farà notare che certe sue posizioni sono vicine e conducono al cristianesimo, risponderà: «Certo, cristianesimo — e perché poi no?». Insieme e più che gli autori biblici, legge Seneca, Agostino, Kierkegaard, Dostoevskij, Jung e, con una predilezione particolare, Rilke. Il Dio che si fa rapidamente spazio lungo il breve itinerario di Etty Hillesum, sebbene a lui rivolga la sua preghiera, sebbene dialoghi con lui, non è, per usare i termini di Martin Buber, il Tu oggettivamente esistente al di fuori della propria mente, ma, come è detto più volte, un nome dato alla parte più intima e profonda di se stessa: «La parte più profonda di me, che per comodità io chiamo "Dio"». La propensione mistica che va crescendo in Etty è qualcosa di molto vicino alla sua passione letteraria, al suo bisogno di essere un'artista. Nel campo olandese di smistamento di Westerbork continua a scrivere in condizioni di estremo disagio:* «In un campò deve'pur' esserci pn poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare». «Noto che la mia capacità di osservazione registra tutto così esattamente e ne provo un piacere singolare. Nella grande rovina delle cose, in tutta la mia stanchezza, sofferenza, e così via, rimane pur sempre la mia gioia, la gioia dell'artista nell'ósservare le cose, e nel trasformarle nel suo spirito in un'immagine sua». E in una delle ultime lettere scriverà amaramente: «Forse non diventerò mai una grande artista come in fondo vorrei». Etty Hillesum, malgrado la ferrea volontà con la quale affronta le terribili situazioni che le vengono inflitte, resta la ragazza che era. Una ragazza borghese che si osservava muoversi nella sua belia stanza alla quale non faceva mai mancare i fiori, una ragazza che vibrava con lo spettacolo della natura. Ma anche una ragazza segnata da continui cambiamenti d'umore, nevroticamente attenta ai suoi maIanni, che ingoia un'inverosimile quantità di medicine; una ragazza golosa di cibi e di dolciumi, soprattutto esasperatamente attratta dalla sessualità, alla quale dichiara di essersi abbandonata freneticamente, ma anche sperimentando in profondità un crescente inappagamento. Il pensiero del suicidio non le era estraneo. Elementi come questi compongono il quadro più evidente della sua persona lità. La difficoltà sta nel raccordarli con l'assoluto impe gno per il prossimo, con la pietà per le sventure altrui, con la tenace detetminazione di non sottrarsi a nessuna prova, per quanto terribile si prospettasse. L'incontro che segna in modo decisivo gli ultimi anni della vita di Etty è quello con l'ebreo tedesco Julius Spier, uno «psicochirologo» di quasi trent'anni più anziano di lei, alia terapia del quale ricorre per avere un aiuto psicologico, e di cui diventa la segretaria e l'amante. Inizia a tenere !l suo Diàrio dall'incontro con ui, e da lui apprende a nominare e a pregare Dio, a inginocchiarsi. Certamente Julius Spier esercitò un influsso determinante sulla giovane Etty, che lo chiama «il grande amico, l'ostetrico della mia anima». Ma che genere di uomo era In lui, scrive nel Diario, «c'e¬ rano tutto il male e tutto il bene che possono esserci in un uomo». Era stato, prima di diventare «psicochirologo», un banchiere, ma aveva anche una bella voce e amava cantare. Philippe Noble, nella sua introduzione alle Lettre; de Westerbork (éd. du Seuil, 1988), ne parla come di un «"uomo coperto di donne", dal magnetismo un po' ciarlatanesco».. Da Spier, che per malattia le premorrà, Etty deriva, o attraverso lui prende forma in lei, un sentimento della realtà improntato misticamente, o forse soltanto misticheggiante, in cui ogni contrasto si placa nell'unità del tutto, in quel Dio che non è altro che la più intima profondità di ciascuno di noi. Ma non mi pare che ci sia qui una vera coerenza, non mi pare che si possa conciliare una così partecipe pietà e un così intenso impegno etico verso i più infelici, qual è quello che Etty pratica nel periodo trascorso a Westerbork prima della deportazione, con la convinzione, ripetuta con l'insistenza di un ritornello, che tutto ciò che accade è bene, la sofferenza non meno della gioia. Sebbene avesse anche scritto, a giustificazione di un suo aborto volontario, che «la vita è sostanzialmente un gran calvario e tutti gli esseri umani sono infelici», si moltiplicano sempre più, via via che la sua esistenza è stretta nella morsa dell'orrore, affermazioni radicalmente opposte: «Per essenza la vita è buona. Questa resta la mia ultima parola, anche adesso, anche se mi mandano in Polonia con tutta la mia famiglia». Significativamente, la bontà della vita viene connotata soprattutto come bellezza. «Tutto è perfettamente buono. E nello stesso tempo perfettamente cattivo. Le due facce delle cose, si equilibrano, dovunque e sempre. Ogni situazione, per deplorevole che • v sia, è un assoluto che riunisce in sé il buono e il cattivo». Se infatti non c'è netta separazione fra bene e male, allora ad emergere come ultimo fondo delle cose è necessariamente una mistica, o misticheggiante, bellezza: «Far sentire quanto la vita sia bella e degna di essere vissuta e giusta, sì, proprio giusta» (evidentemente nel senso di una «giusta» corrispondenza estetica che equilibra fra loro il bene e il male); «Voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti "orrori" e dire ugualmente che la vita è bella». Sembra di essere, qui, davvero molto lontani dalla sensibilità ebraica: da quella sensibilità che si esprime, anzitutto, in quegli autori ebrei che hanno patito fino al fondo di una disperazione devastatrice la mostruosa assurdità della Shoah. Penso a Wiesel, a Fackenheim, a Neher, a Jonas, a Primo Levi, a tanti altri che hanno visto in Auschwitz la fine del senso del mondo e della storia. L'approdo di Etty è a un distacco da ciò che è materiale: quello che conta è la «vita che si svolge interiormente e lo scenario esteriore ha sempre meno importanza». E, nell'accettazione, si è riconciliati anche con la morte, agli antipodi di quella che è la radice messianica del suo ebraico rifiuto, testimoniato ancora intensamente da Elias Canetti. Per Etty, invece, «se si esclude la morte non si ha mai una^vita completa; e se la si accetta nella propria vita, si amplia e si arricchisce quest'ultima». Eppure, quando Etty sale cantando con la sua famiglia sul treno per Auschwitz, non è la serena accettazione della morte a ispirarli, ma, si sente, l'indomabile attaccamento ebraico alla vita. Cantando erano partiti gli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492. Sono ùispnima, riconoscibili in. Etty Hiiìesùm, diètro' le mascnere costruite' dall'ambiente in cui è vissuta, dietro i travestimenti estetici e mistici dell'esistenza di una ragazza sostanzialmente sola e dispersa, caratteri inconfondibilmente ebraici, presenti e operanti anche suo malgrado. Se Etty insiste a ripeterci che tutto è bello, è perché un'ebraica volontà di vivere fino in fondo vuole questo in lei. Un rivestimento ideale, poetico, ricopre in lei la solida, l'irriducibile, l'intima forza ebraica. Sergio Quinzio

Luoghi citati: Adelphi, Auschwitz, Polonia, Roma, Spagna