Bush, nel segno di Kennedy? di Ennio Caretto

Bush, nel segno di Kennedy? Venerdì il Presidente eletto si insedia alla Casa Bianca Bush, nel segno di Kennedy? Ma, al contrario del suo predecessore, rischia di fallire in campo economico e sociale e di trionfare in politica estera, di essere l'uomo della distensione, non dell'integrazione americana DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON — Con Ronald Reagan esce di scena un presidente dalla grande visione del passato. Ma, con George Bush, entra in scena un presidente dal grande disegno del futuro? Al termine di otto anni tumultuosi che hanno visto nascere la pax sovietica e americana in tutto il mondo, ed esplodere il benessere nei Paesi più avanzati, la superpotenza si chiede dove la porterà l'uomo che è l'erede e insieme il critico del reaganismo. In uno di quei paradossi di cui è così ricca la storia, proprio Reagan, il «nemico» dei comunisti e l'alfiere del liberismo, ha aperto l'America allUrss e le ha restituito la fiducia nell'apparato governativo Usa. Ma cosi facendo ha posto il suo successore davanti a una nuova serie di problemi. George Bush è chiamato a impostare la politica estera degli Stati Uniti non più sulla base esclusiva del contenimento militare del Cremlino e a istituzionalizzare un miracolo economico che poggia da un lato su rischiose strategie finanziarie e dall'altro su ingiustizie sociali profonde. L'America gli chiede di fare come Kennedy, ma evitandone gli errori. L'addio di Reagan venerdì chiuderà un'epoca non tanto perché finisce una presidenza fondata sul carisma personale, quanto perché finisce 11 ■.entennio del tormento americano. Dal '68 aU'88, l'America ha vissuto nei dubbi della contestazione, nella vergogna del Watergate e nel rimorso del Vietnam. La sua è stata una ricerca angosciosa di un equilibrio diverso, avvenuta prima in un confronto selvaggio col potere, di cui fu simbolo Nixon.poi nell'abbraccio cieco degli outsiders, di cui furono espressione Carter e Reagan. In un certo senso il segreto del successo reaganiano è semplice: il grande comunicatore, uomo del passato, ha riportato la superpotenza ai sogni antecedenti il '68. Ma proprio per questo, la rivoluzione o restaurazione di Reagan è sfociata nel ritorno al centrismo tradizionale degli Stati Uniti. Non a caso, dalle primarie dello scorso anno sono emersi due candidati, Bush e Dukakis, che avrebbero ben figurato alla fine degli Anni Cinquanta, inizio degli Anni Sessanta Nel momento stesso in cui l'America ha accettato la tragedia del Vietnam e le sue scosse interne ritornando sulla strada moderata che le è propria, essa ha recuperato i suoi leader storici. Ha assegnato loro altresì un mandato keniiediano: ripensare gli schemi nazionali e internazionali, e dunque riformarli, ma senza ricadere nel disordine e nelle avventure che caratterizzarono l'«età di Camelot», come fu chiamata la presidenza Kennedy. Il suo concetto di continuità va ben oltre la prosecuzione delle politiche di Reagan: James Baker ad esempio, il segretario di Stato entrante, non ha consultato solo Shultz, è risalito indietro fino a Henry Kissinger e persino a Dean Rusk, l'architetto della politica estera di Kennedy. Riuscirà Bush a essere un secondo Kennedy, ma più onesto e attento? Egli ne ha indubbiamente l'ambizione. Sul versante repubblicano, Bush riassume molte delle caratteristiche del suo lontano predecessore, l'orgoglio dinastico—il padre fu un noto senatore —, la dedizione al pubblico servizio, il bagaglio illuminista e paternalista a un tempo; in più, possiede un rigore puritano che era sconosciuto a Kennedy e che dovrebbe riflettersi nel ripristino deU'etica degli affari e del governo. Gli mancano tuttavia le ispirazioni fulminanti e il progetto storico del presidente assassinato. L'eredità del reaganismo è così contraddittoria che Bush corre il pericolo di fallire in campo economico e sociale e di trionfare invece in politica estera. Reagan gli consegna una finanza in marcia verso la catastrofe proprio mentre i neri e le altre minoranze rivendicano i diritti calpestati negli ultimi otto anni. Le previsioni per l'89 sono gravi, n deficit del bilancio statale sarà di almeno 160 miliardi di dollari, il debito pubblico si avvicinerà ai 3 trilioni o 3000 miliardi di dollari, l'esposizione estera supererà i 600 miliardi di dollari. Chiudono i battenti le Casse di Risparmio, l'inflazione sale verso il 5-6 per cento, la Riserva Federale ammonisce che il Paese non può permettersi una crescita del prodotto nazionale lordo superiore al 2,5 per cento. Bush rischia di trovarsi senza mezzi per la ristrutturazione economica e il rilancio della previdenza sociale senza i quali gli Stati Uniti perderebbero di competitiva ed entrerebbero in una-fase d'instabilità politica. Anche il New York Times si è chiesto se George Bush «sia pronto a immaginare il futuro» e ha risposto sì per quanto riguarda l'estero, ma forse no per ciò che concerne l'economia. La ragione è chiara: Reagan, eletto per mettere ordine in casa, in realtà ha messo ordine fuori. Sempre nel giudizio del New York Times, «egli ha dato a Bush le carte migliori mai toccate a un presidente nel dopoguerra» nella partita a poker col Cremlino. E' ben avviato il disarmo, si stanno risolvendo le crisi regionali, c'è una schiarita persino in Medio Oriente. Bush può discutere con serenità con gli alleati — e lo farà già ad aprile alla Nato — la strategia del 2000 e quindi il carattere e il burden sharing o ridistribuzione delle spese della Nato, le forniture di tecnologie, i crediti alrUrss e all'Est europeo. Può negoziare altresì proficuamente col Giappone e con la Cee. E' facile che diventi un Kennedy alla rovescia, l'uomo della distensione, non dell'integrazione americana. Ennio Caretto Bush a pesca in Florida: ultima vacanza, poi la Casa Bianca