Mafia permettendo

Mafia permettendo Quando lo Stato rinuncia alla forza Mafia permettendo Sembra che la cultura politica democratica non tolleri neppure lontanamente l'idea che la lotta alla mafia possa, o addirittura debba, essere pensata come una vera e propria guerra o, per meglio dire, in una prospettiva bellica. Essa continua invece a credere e a ripetere che ciò che serve, l'elemento davvero indispensabile, è la «volontà politica», senza la quale tutto il resto sarebbe inutile. Ma che vuol dire «volontà politica»? Vuol dire forse che carabinieri e polizia debbono essere incoraggiati in tutti i modi dal potere politico a reprimere i crimini di mafia ed a scoprirne gli autori? Se vuol dir ciò, bisogna però chiedersi, allora, come possa conciliarsi tale auspicio con l'affermazione, pur incessantemente ripetuta, che «la mafia non si può cerio vincere con la polizia e i carabinieri», che -la mafia non è ceno una questione di ordine pubblico». In realtà, sembra di capire che quando invoca la «volontà politica», la cultura democratica non faccia altro che auspicare una situazione in cui tutto un complesso di attori e di fattori sociali — dalle amministrazioni locali alle varie istanze della società civile — si mobiliti per proprio conto o per l'impulso del governo centrale al fine di combattere la mafia. Ma se è ciò quel che s'intende, si tratta di qualcosa di assolutamente chimerico. Se infatti in Sicilia accadessero le cose ora dette, o anche solo se ne accadesse qualcu na, vorrebbe dire non già che la mafia è sul punto di essere de bellata, ma semplicemente che la mafia non esiste e non è mai esistita. Infatti, peculiare della «con dizione mafia» è per l'appunto che la società circostante il fe nomcno criminale non offre adesso alcuna resistenza, né può essere oggetto di un'effettiva mobilitazione da parte di una qualunque «volontà politica». L'esistenza in Sicilia della mafia significa precisamente, ed in primo luogo, che da parte della società siciliana non può esserci alcuna lotta coronata da vittoria, o meglio che tale lotta è stata già persa. Altrimenti, non di mafia si tratterebbe ma di una forma qualsiasi di delinquenza organizzata. Quanto ora detto significa una cosa che di solito i siciliani non amano sentire, e che anche i democratici non sono capaci di ascoltare senza storcere il naso, pur sapendo in cuor loro che le cose stanno proprio così. E cioè che la lotta in Sicilia contro la mafia (e in Calabria contro la 'ndrangheta) deve essere importata dall'«Italia», che la società siciliana o calabrese da so le cioè non potranno mai sperare di farcela. Assodare ciò e importante perché costituisce la premessa e insieme la conferma della natura sostanzialmente bellica della contesa che impegna lo Stato contro la mafia. In Sicilia o in Calabria non si tratta dell'azione repressiva di una società contro la «sua propria» delinquenza. No, ciò di cui si tratta è la lotta che una sovranità estema (quella dello Stato italiano) muove contro il potere vigente in una determinata società storicamente «altra» allo scopo in nanzitutto di distruggere tale potere vanificando la sovranità che esso effettivamente esercita Nella sua opera di «invasore esterno» certamente lo Stato italiano può contare su una mi noranza di siciliani «collaborazionisti», ma ciò non cancella il fatto che lo scontro con la mafia ha come posta effettiva precisa mente i siciliani, ovvero il riconoscimento da parte della società isolana dell'unica e indiscutibile sovranità dello Stato italiano e del relativo obbligo di obbedienza ad esso. L'ambito in cui solamente può decidersi la vittoria sulla mafia è l'ambito della forza e del simbolico nel quale il militare e il politico trovano la loro piena espressione. E da che mondo è mondo è con tali ingredienti che si stabilisce (o si ristabilisce) una sovranità, non con i dibattimenti in Corte d'assise e i ricorsi in Cassazione: quali vanno benissimo ma uni camentc, se così posso dire, per gestire una sovranità già stabilita. Nel caso dello scontro tra Stato e mafia, prospettiva bellica non significa retate, rastrellamenti ed esecuzioni sommarie, bensì, soprattutto, l'imposizióne della legge in detcrminati campi attraverso un impiego unilaterale e incontrollato della forza. Se infatti la mafia è in grado di rendere impossibile pressoché qualsiasi ambito dell'esistenza a chi si oppone alle regole del suo potere-sovranità, allo Stato dovrebbe essere consentito per Io meno di rendere includibile un certo numero di regole che possono essere assunte simbolicamente come rappresentative della società legale contrapposta a quella illegale dominata dalla mafia. Gli imputati d'omicidio possono pure essere affidati, come accade ora, ai magistrati e ai tribunali ordinari, ma se il prefetto di Palermo o di Reggio Calabria avesse ad esempio il potere di comminare, con provvedimento amministrativo non appellabile, tre giorni di arresti domiciliari a chi viaggia in autobus senza biglietto, di sospendere la licenza ai conducenti di taxi con il tassametro fuori uso, di chiudere per un mese gli esercizi commerciali che non rispettano gli orari o che contravvengono a qualsivoglia regolamento, di licenziare in tronco i dipendenti assenteisti o negligenti di tutte le amministrazioni centrali e locali, di annullare a suo insindacabile giudizio ogni contratto stipulato dalle medesime, di sciogliere e revocare sempre a suo giudizio insindacabile qualsiasi consiglio di gestione, presidenza o consiglio d'amministrazione di Usi, di ente o azienda pubblica, di ordinare misure di sequestri di beni e di radiazione dagli albi professionali a carico di sospetti, o il disallaccio da consumi pubblici come elettricità e telefono, se lo Stato italiano avesse il coraggio di dare ad un suo prefetto, cioè a se stesso, tali poteri, ho idea che la sua immagine nella società siciliana o calabrese muterebbe alquanto rispetto a quella che è oggi, e che tra i gentiluomini di Bagheria e di Ciminà non solo sorgerebbe un certo disagio, ma forse anche qualche problema nel continuare a esercitare il potere fin qui esercitato. Naturalmente tutto ciò comporta la sospensione delle garanzie costituzionali e la proclamazione di una sorta di stato di guerra. Ma non è meglio questo che una strisciante quanto inefficace violazione quotidiana, come è praticata oggi, delle norme costituzionali? E' certo che mettersi in quest'ordine di idee — come si affretterebbero a notare \'Avanti! e La voce repubblicana, per una volta concordi — vuol dire fare mostra di «bellicismo» e di «mancanza di rispetto delle regole democratiche». Dunque niente da fare, la guerra alla mafia non ci sarà, e vivremo tutti, specialmente a Gela e a Gioia Tauro, pacifici, democratici e contenti. E, va da sé, alla mercé della mafia. E. Gali i della Loggia