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Ho provato il tormento che schiaccia l'anima LO SCRITTORE WILLIAM STYRON: «LA DEPRESSIONE UCCISE PRIMO LEVI » Ho provato il tormento che schiaccia l'anima ROXBURY (Connecticut) — Perché il celebre scrittore italiano Primo Levi è morto in un modo così impressionante? Inabissato in una depressione patologica, Levi, un sopravvissuto di Auschwitz, che ha lasciato una vivida testimonianza letteraria della sua atroce esperienza sotto i nazisti, si è gettato nella tromba delle scale di casa sua, a Torino, nel 1987. Secondo l'articolo di un quotidiano, l'enigma di quella morte è stato un tema ricorrente nel recente convegno che la New York University ha dedicato a Levi. Alcuni partecipanti hanno reagito con semplice incredulità. Alfred Kazin, un noto critico letterario, è citato per aver detto: «E' difficile per me credere a un'oscimi volontà di autodistruzione in uno scrìttole così felice e pieno di nuovi progetti». Un amico, respingendo l'idea che lo scrittore abbia deciso consapevolmente di uccidersi, ne ha considerato la morte come il risul• tato di un «impulso improwiso e incontrollabile»: come se una decisione razionale avesse potuto in qualche modo gettare una sfumatura di biasimo. In queste c in altre affermazioni c'era almeno un'ombra eli disapprovazione, un sentimento inespresso per cui attraverso un qualche misterioso cedimento mo, rale Levi abbia deluso i suoi ammiratori più fedeli. Apparentemente non menzionata durante il convegno, sebbene citata nell'articolo, è stata l'esempio più greve di un simile punto di vista un'allusione sul New Yorker . che «l'efficacia, delle sue parole sia '.stata in qualche modo cancellata dalla sita mone». Questa idea im; plica che la forza e il fervore dell'o; pera di uno scrittore sono invalida; ti se, invece di morire per cause ; naturali, si toglie la vita. La cosa più sconcertante del resoconto è l'apparente incapacità dei partecipanti al convegno di fare i conti con una realtà che sembra ovvia. La morte di Levi non può essere dissociata dalla grave depressione da cui era afflitto, e il suicidio £ la diretta conseguenza di quella malattia. A quelli che hanno sofferto una grave depressione (compreso me stesso), questa inconsapevolezza diffusa di come la malattia possa generare un incessante impulso all'autodistruzione sembra universale: il problema necessita, spiacevolmente, di un chiarimento. Il suicidio resta un gesto tragico e spaventoso, ma si continuerà a impedirne la' prevenzione (e su di esso continuerà a gravare l'antico marchio infamante); finché non si comincerà a capire che la grande maggioranza di quelli che si tolgono la vita, o che tentano di farlo, non agiscono per fragilità, e raramente con coscienza, ma perché sono nella morsa di una malattia che causa un dolore quasi inimmaginabile. E' importante cercare di afferrare la natura di questo dolore. Nell'inverno 1985-86 mi ricoverai in un ospedale psichiatrico perché il dolore per la depressione di cui soffrivo da più di cinque mesi era diventato intollerabile. Non ho mai cercato di uccidermi, ma la possibilità era diventata più reale, e il desiderio più intenso, mentre le giornate passavano agghiaccianti e la malattia si faceva più oppressiva e intensa. Ciò che quell'estate era cominciato come un malessere saltuario e un senso vago d'inquietudine nervosa, era cresciuto fino al punto che le mie notti diventavano insonni e i miei giorni erano pervasi di una grigia cappa d'incessante orrore. Questo orrore è pratica¬ mente indescrivibile, dal momento che non ha relazione con la normale esperienza. Nello stato depressivo, una sorta di collasso biochimico, il cervello s'ammala tanto quanto la mente, s'inceppa come qualsiasi altro organo sotto pressione. Il cervello malato gioca brutti scherzi allo spirito che vi risiede. Lentamente, sopraffatto dalla lotta, l'intelletto si stempera nella stupidità, svanisce ogni capacità di divertirsi e la disperazione scandisce impietosamente le giornate. Il più piccolo luogo comune della vita domestica, cosi gradito alla mente sana, lacera come una lama. Cosi, misteriosamente, in modi difficili da accettare per chi non ne abbia mai sofferto, la depressione viene a somigliare all'angoscia. Tale angoscia può divenire, al minimo accenno, straziante quanto il dolore per un arto fratturato, l'emicrania o un attacco cardiaco. La maggior parte delle sofferenze fìsiche passa con qualche analgesico. Non la depressione. La psicoterapia serve a poco per la depressione profonda e gli antidepressivi sono, a essere generosi, inaffidabili. Anche il sollievo del sonno, di solito, scompare. E così, dato che non c'è tregua, è del tutto naturale che la vittima pensi incessantemente all'oblio. E' opinione comune che il suicidio sia il gesto di un codardo, o qualche volta, paradossalmente, un atto di grande coraggio. Ma non ò né l'una né l'altra cosa: il tormento che spinge al suicidio lo rende spesso un'atto di cieca necessità. Le origini della depressione restano un mistero, nonostante importanti progressi nella ricerca. Sembra che coincidano molti fattori. Oltre ai disturbi chimici di base nel'cervello e alle influenze comportamentali e genetiche, vanno aggiunti all'equazione motivi psicologici. Levi potrebbe essere stato vittima di conflitti sepolti, senza alcuna connessione con Auschwitz. Oppure, davvero, la sua atroce esperienza di Auschwitz potrebbe avergli schiacciato l'anima con un fardello intollerabile. Altri scrittori feriti dall'Olocausto (vengono in mente Paul Celan e Tadcusz Borowski) scelsero il suicidio come modo per sfuggire all'inferno della memoria. Ma la maggioranza dei sopravvissuti ai Lager hanno scelto di vivere, e ciò che in definitiva importa alla vittima della depressione non è la causa, ma il trattamento e la cura. Quello che intristisce nella morte di Primo Levi è il sospetto che questa fine non fosse inevitabile, e che con un trattamento appropriato avrebbe potuto essere salvato dall'abisso. Forse l'unica grazia nella depressione è che la malattia pare autolimitarsi: il Tempo è il vero guaritore e con o senza trattamento il paziente di solito si ristabilisce. Anche così, per quanto presuntuoso possa essere fare supposizioni da una simile distanza, trovo difficile non credere che se Levi fosse stato in cura presso un buon ospedale, sottratto all'insopportabile mondo quotidiano, in un ambiente dove fosse stato al sicuro dal suo impulso autodistruttivo, e dove il tempo avrebbe permesso alla tempesta che infuriava nel suo cervello di calmarsi e spegnersi, egli sarebbe ancora tra di noi. Ma, comunque, una cosa è certa: Levi ha ceduto a una malattia che si è dimostrata maligna e non un filo di biasimo morale dovrebbe essere attribuito al modo in cui se n'è andato. William Styron OpjTÌght «The Nrw York Times» e per l'Italia «La Stampa»

Persone citate: Alfred Kazin, Paul Celan, Primo Levi, Tadcusz Borowski, William Styron

Luoghi citati: Connecticut, Italia, Torino