Cinquantenni da buttare di Alberto Papuzzi

Cinquantenni da buttare IL BOOM DELLA TERZA ETÀ': CRISI INDIVIDUALI, PROBLEMI SOCIALI Cinquantenni da buttare La rivoluzione tecnologica ha capovolto i valori nelle aziende - La cultura del lavoro un tempo privilegiava l'esperienza, oggi premia la giovinezza - Ma nella pratica, alcune professionalità resistono ai cambiamenti: «II patrimonio di un programmatore cinquantenne di computer non si è impoverito rispetto all'evoluzione dei linguaggi» - «Dal punto di vista collettivo, non utilizzare le competenze degli anziani è un suicidio» TORINO — n mondo aziendale del nostro Paese era organizzato fino a dieci anni fa sull'ipotesi che l'età sia un fattore professionalizzante. Su questa ipotesi si era sviluppata una cultura del lavoro, anche corporativistica, che privilegiava il valore dell'esperienza rispetto a quello dell'iniziativa. A tutti i livelli, operai di mestiere, impiegati e tecnici, capi e dirigenti, gli anziani contavano più dei giovani, a ricambio generazionale allora era soltanto fisiologico, come nel finale del film n posto di Ermanno Olmi. Oggi si è passati all'eccesso contrario. La tendenza generale, sull'esempio di quanto avviene soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Germania, Francia, Inghilterra, è di abbassare progressivamente la soglia del ricambio generazionale nelle aziende: prima a 55 anni, poi a 50, a 45, o 40. L'esperienza in generale non fa premio, l'età diventa un disvalore (salvo nei casi dei grandi manager). In una fase di rinnovamento sia dei prodotti industriali sia dei processi di produzione, si è introdotto anche per gli uomini un concetto prima applicato soltanto alle macchine: quello di obsolescenza. Definire obsoleta una persona può apparire odioso. Vuol dire che il suo bagaglio di esperienze è da buttare. Il comune sentimento della dignità vorrebbe che nessuno venisse mai scartato. Ma la realtà delle imprese prospetta situazioni molto diverse da quanto dettano i sentimentiLa Fondazione Agnelli ha presentato in marzo una ricerca intitolata Tecnologia e Scienza nella cultura degli italiani, in cui si analizzano gli atteggiamenti di fronte all'innovazione tecnologica. Un paragrafo significativo è quello sulla disponibilità personale all'impiego di nuove tecnplogie"(macèhine o sistemi còllegali a un calcolatore). I soggetti intervistati, circa 4500, erano suddivisi in classi di età (18-25, 26-39, 40-54, 55-64). La disponibilità a lavorare con un word processing, una linea di robot, il Cad-Cam o semplicemente un telefax era schematizzata in tre parametri, bassa, media, alta. Tra gli anziani solo il 5,3 per cento ha dimostrato una disponibilità alta, nel 63,2 per cento dei casi la disponibilità è risultata bassa (al contrario, tra i giovani, 23,5 per cento alta, 20,6 per cento bassa). Questo significa che il ricambio generazionale è diventato un fattore strategico per le imprese? Sergio Primus, responsabile dello Sviluppo del personale alla Olivetti: «E' vero, in parte. Ma negli ùltimi anni si è sovrapposto un problema di ristrutturazioni aziendali: difficile dire dove finisca l'obsolescenza del personale e dove inizino le esigenze di ristrutturare. Nel campo dell'elettronica l'area più coinvolta è quella della produzione, dove l'impatto dell'innovazione tecnologica sia nei prodotti sia nei processi ha generato un problema non tanto di obsolescenza, anche se resta l'esigenza di adattarsi a sistemi di lavorazione, automatizzati, quanto di esubero, perché è richiesto molto meno lavoro per unità di prodotto. Il problema tocca invece di meno il mondo del software». Il sociologo Luciano Gallino: «Da un lato le imprese hanno un'esigenza obiettiva non soltanto di nuova professionalità ma anche di vitalità, di aggressività. Dall'altra ritengo che ci sia una forzatura, nel senso di rincorrere i tempi e le mode: si pensa che ringiovanire di dieci anni un'azienda sistemi tutto, mentre magari i problemi, le tensioni sono altrove. H mutamento reale nelle cmupslgn competenze specifiche è assai minore di quanto non si dica, al di fuori di esigenze puramente atletiche, poiché è chiaro che un cinquantenne non può correre 12 ore al giorno». Facciamo degli esempì: un operaio di mestiere è meno adatto di un giovane perito a diventare un manutentore super professionalizzato; se invece deve trasformarsi in un controllore di robot, bisogna vedere se ha voglia di seguire un corso di formazione. Si può pensare che il gap di professionalità sia più grave per chi lavora in campi che hanno registrato una rapida evoluzione dei linguaggi, per esempio nel software. Un programmatore di computer, di cintpmni'anni è svdntaggidto rispetto a un collega di trent'anni? Primus: «Nel mondo del computer l'evoluzione ha significato che da linguaggi molto vicini al funzionamento reale della macchina siamo passati a linguaggi affini a quelli naturali. Di conseguenza il know how di un programmatore cinquantenne non si è impoverito in questi vent'anni. Possiamo paragonare questo programmatore a un automobilista che abbia imparato a guidare ai tempi dell'anticipo regolato a mano e delle marce non sincronizzate: non ha alcun pro¬ Dspppn blema a guidare le automobili prodotte oggi, al massimo si diverte di meno perché non fa la doppietta». Gallino: «Sarebbe importante conciliare il lavoro con un continuo autosviluppo. Si può imparare a qualsiasi età. Ma se in quei dieci anni in cui ci si gioca la carriera si lavora dodici ore al giorno, il tempo per l'aggiornamento, il tempo per lo studio, dove lo si trova? Dopo dieci anni così, per forza si è obsoleti». Un caso concreto: l'Ibm ha presentato negli Stati Uniti un programma di uscite anticipate dal lavoro anche a 45 anni. Politiche analoghe ha messo in cantiere in Germania e in Francia. Che cosa accade alla Ibm Italia,'sede, a Milano, turn over del 3 per cento? Risponde Odorisio de Grenet, direttore delle Relazioni con il personale: «La sfida per noi è utilizzare al massimo le capacità di cambiamento, non far uscire le persone dall'azienda Non abbiamo presentato alcun programma di pensionamenti anticipati Tendenzialmente assumiamo giovani, non persone con una propria esperienza. Tutte le opportunità vogliamo offrirle a chi è in azienda. Inserendo i nuovi assunti dal basso si crea una dinamica di cambiamento che investe tutta la struttura. Rispetto agli anziani, la nostra politica è di abituarli al cambiamento, sia riportandoli in aula, sia ruotando le attività. Si perde in specializzazione, ma si guadagna in capacità di vedere il lavoro». Il fenomeno non riguarda solo la condizione soggettiva degli anziani e l'organizzazione interna delle imprese: i cinquantenni e sessantenni che quotidianamente escono da fabbriclie e uffici vanno a ingrossare una fascia improduttiva che fra poco raggiungerà il venti per cento della popolazione italiana. Secondo un'inchiesta demoscopica citata nel primo articolo, tra chi ha più di sessant 'anni solo il S per cento svolge un'attività retribuita, solo il 2 per cento si dedica, spesso al volontariato (negli Stati Uniti queste percentuali sono rispettivamente 22 e 17). Si può misurare il costo di questa popolazione passiva considerando il rapporto tra spesa generale per le pensioni e prodotto interno lordo. L'indice in Italia è pari a 15,6 (dato Censis, riferito al 1985), il doppio che negli Usa (7,2) e il triplo che nel Giappone (5,3). La Francia è più vicina (12,7), la Danimarca resta lontana (6,7). In ogni caso siamo molto al di sopra della media per i Paesi industrializzati- 8,5. Gallino: «Le risorse umane scaricate dalle aziende potrebbero risultare molto utili a un sistema sociale che fa acqua. Dal punto di vista dell'interesse collettivo, non utilizzarle è un suicidio. La crisi dello Stato assistenziale è dovuta, in molti casi, alla mancanza di gente che fornisca lavoro: si dovrebbero studiare soluzioni che prevedono il part time e il volontariato, per esempio nella sanità. In questo spreco di energie, c'è una componente di follia Più in generale io ritengo che si debba pensare seriamente a pensionamenti graduali, riducendo progressivamente il carico di lavoro. Perché ragionare sempre in termini di uno o zero?» Primus: «Quando ci saranno più pensionati che lavoratori, il problema sociale sarà che i pensionati lavorino. Una volta liberati dalla disoccupazione giovanile, avrà sempre meno senso impedire lavoro nero che non sarà più nero. La tecnologia ci aiuta il signore che va in pensione può trovare a casa ui personal uguale a quello dell'ufficio. Lavorerà in proprio, lavorerà di meno, ma quanto più il lavoro diventa terziario avanzato tanto più sono possibili forme di part time. Oggi ci sono vincoli normativi e condizioni sociali non ancora mature, ma sono convinto che le possibilità tecniche avranno ragione». Ma questo è uno sguardo sul futuro. Oggi ne siamo effettivamente lontani. Il ruolo sociale della terza età è ancora lasciato all'iniziativa personale, pezzi sparsi di cultura cattolica o di solidarismo sindacale. Come racconta una pensionala che lavora alla Federazione pensionati della Osi di Milano: Carla Panigada, ex impiegata della Rinascente: «H mio. volontariato?1 Qui, in sindacato. In un gruppo che segue una cooperativa di handicappati, alla Cardinale Ferrari che si occupa dei barboni. Ne conosco abbastanza di persone anziane che fanno volontariato. E' più diffuso di quanto sembri. I pensionamenti? La tendenza è quella: nell'industria a cinquant'anni una persona è già vecchia Non soltanto nell'industria Una commessa cinquantenne è considerata vecchia perché perderebbe la bella presenza Anche lei, capisce, obsoleta». Alberto Papuzzi Ivrea. Una fabbrica di personal computer Olivetti. «La tecnologia ha generato un problema di sovrabbondanza di manodopera»

Persone citate: Carla Panigada, Ermanno Olmi, Gallino, Luciano Gallino, Odorisio, Primus, Sergio Primus