La tradizione vuole in tavola lenticchie, cappone e oca di Sandro Doglio

IL MENU' DELLE FESTE GASTRONOMIA IL MENU' DELLE FESTE La tradizione vuole in tavola lenticchie, cappone e oca LE lenticchie, si sa, portano fortuna, soprattutto soldi (perchè hanno un po' la forma di piccole monete, spiegano i pignoli). Il cappone è l'atteso risultato di una lunga stagione di attente cure e abbondanti pastoni (oltre che di una crudele operazione compiuta sacrificando il gallo più bello del pollaio). L'oca è l'animale più gustoso dell'aia (per gli ebrei valeva quanto il maiale, a loro vietato per motivi religiosi: delle due povere bestie si riesce a utilizzare assolutamente ogni parte). Le castagne, infine, in un non lontano passato erano l'unico frutto a portata di mano dei poveri piemontesi in questo inizio d'inverno. Lenticchie, cappone, oca e castagne, insomma: e la nostra tradizione a tavola è rispettata. Non è pranzo di Natale, sostenevano i nostri vecchi, se in tavola non compare almeno uno di questi quattro elementi. Meglio tutt'e quattro: erano tempi in cui si mangiava pochissimo tutti i giorni e moltissimo invece nelle poche grandi occasioni. Possono essere combinati come si vuole, cotti in cento maniere, presentati con i più innovativi o tradizionali contorni o sughetti: ma l'oca o il cappone (arrosto, bollito, in spezzatino, farcito, caldo, freddo, eccetera), non dovrebbero mancare nel menù della sera del 24 dicembre. E così le lenticchie (a far da contorno oppure in minestra) o le castagne (come farcia dell'oca, arrostite, bollite, secche, sotto forma di castagnaccio, di «Mont Blanc», o - raffinatezza estrema - di «marrons glacés». La tradizione vuole anche che il gran cenone si celebri in un locale non pubblico o in troppo grande brigata, ma in famiglia. E' il retaggio di quando si faceva tardi a tavola, riuniti tutti assieme, per poi andare alla Messa di mezzanotte (e al ritorno, i bambini avevano la gioia di scoprire i regali). Ma oggi probabilmente si va più al ristorante, meno in chiesa, e quasi tutto l'anno è tempo di regali. I puristi della gastronomia del territorio sostengono invece che non sono un piatto tipico della vigilia di Natale i pur diffusissimi agnolotti. Nati presumibilmente come recupero dei buoni e abbondanti cibi portati in tavola nelle grandi occasioni (e quindi anche di quel che non si è riusciti a inghiottire la sera del 24 dicembre), gli agnolotti sarebbero invece il piatto dominante e indispensabile per il pranzo di Santo Stefano. Passata la giornata di Natale in casa i ragazzini a giocare, le mamme a tritare carni, a far la pasta e a confezionare appunto gli agnolotti - il 26 dicembre la tradizionale famiglia torinese o piemontese apriva le porte ad amici, parenti e conoscenti per un pasto quasi pantagruelico, che si trascinava fino a sera. E' una tradizione che oggi sembra in parte perduta: per Santo Stefano si va infatti sempre più volentieri al ristorante, dove - almeno - dovremmo fare in modo che non manchino gli agnolotti (che si spera non siano troppo industriali, né fatti davvero con gli avanzi dei pasti precedenti, oppure riempiti con quel tipo di farcia che ci assicurano si può addirittura comprare a quintali, chiusa in bidoni o anche in grossi sacchi congelati). Per il vino, non ci sono problemi: Barolo e Barbaresco (oppure Carema, Gattinara, Ghemme: insomma un vino nobile nato dal nostro miglior Nebbiolo) per accompagnare i piatti più importanti; un Grignolino (o un Dolcetto, oppure uno di quei quasi dimenticati vini piacevoli e più leggeri delle nostre colline) per gli antipasti (che dovrebbero essere abbondanti e numerosi più che mai). Infine, con i dolci, il Moscato oppure l'Asti Spumante, che è indispensabile per gli auguri. Sandro Doglio

Persone citate: Blanc, Mont

Luoghi citati: Gattinara