Liberi i generali omicidi

Liberi i generali omicidi Videla e gli altri capi della giunta militare erano stati condannati nelT85 per le feroci repressioni Liberi i generali omicidi Argentina, Menem firma l'indulto BUENOS AIRES DAL NOSTRO INVIATO Dunque, ha firmato la grazia per i generali assassini ma nello stesso momento invoca una condanna per i militari rivoltosi: una contraddizione che pochi capiscono. «La testa, voglio la loro testa», ha urlato la sera che i «carapintadas» avevano occupato due caserme e minacciato di estrometterlo dalla Casa Rosada. «La testa», ha insistito con i giudici. Inflessibile. Ma appena saputo che, secondo la Corte suprema, un verdetto di morte sarebbe improponibile perché i rivoltosi son da considerare responsabili non di «ammutinamento» ma di «ammutinamento in concorso ideale con la ribellione», lui, sicuro, generoso ripete: «Mai più una fucilazione in Argentina». Dopo gli anni di sangue qui a Buenos Aires la pena di morte è un argomento impopolare. Ma Carlos Menem, 60 anni, origini siriane aveva giocato abilmente anche questa mano e un sondaggio ha rivelato come tre argentini su quattro fossero favorevoli ad accoppare gli insorti. Anche la Chiesa non aveva sollevato troppe questioni. Più che un presidente del nostro tempo Menem pare un «Caudillo», anche se ultimamente si è fatto sforbiciare le folte basette che, secondo l'iconografia latinoamericana, lo facevano somigliare a Rosas o a San Martin. Ora qualcuno lo definisce un grande giocatore, capace di avvertire gli umori della gente, disinvolto nelle decisioni, ancora più spregiudicato nel mutarle. Un giocatore che tenta un'impresa molto difficile: portare a termine il mandato. Cosa ardua: dal 1930 sarebbe la terza volta che un presidente eletto democraticamente conclude senza essere estromesso dalla Casa Rcsada da un «levantamiento». Ancora si udiva l'eco degli spari dell'ultima insurrezione che Menem ha lasciato filtrare una notizia per molti choccante: per i generali responsabili della feroce repressione degli anni di piom¬ bo, Jorge Videla e l'ammiraglio piduista Massera, era stato deciso l'indulto. E tanto per mantenere stabili gli equilibri l'atto di clemenza sarebbe stato allargato a Mario Firmenich, leader dei Montoneros. Ma con l'occhio attento agli umori della strada, il Presidente avrebbe pronta la grazia anche per Carlos Monzon. L'ex pugile, che fu campione del mondo, è condannato per l'omicidio della moglie. Menem spera di toglierlo dal carcere ma a siglare il decreto tocca ad Antonio Cafiero, governatore della provincia di Buenos Aires, peronista. E Cafiero, che naviga in una corrente diversa da quella del Presidente, ha risposto picche. Menem non rinuncia. In un'Argentina dove le simpatie per Washington sono scarse, ha invitato George Bush accogliendolo come un grande amico. E si è mostrato indifferente a chi gli ha ricordato come Peron, il primo «jefe» dei descamisados, una volta avesse impostato la campagna elettorale con lo slogan «0 Broden o Peron»: e, in quegli anni, Broden era il fin troppo attivo ambasciatore Usa. Ma i tempi son cambiati e Menem lo ha capito forse meglio di tutti. Al Congreso, dove Bush ha parlato brevemente, per apparire in tutto all'altezza dell'ospite, il Presidente è salito su uno sgabello nascosto dietro al leggio da dove i due Capi di Stato hanno risposto ai giornalisti. Poi ha fatto festa alla Sociedad Rural, il santuario dei latifondisti argentini, contro cui marciavano i «descamisados» ogni qualvolta qualcuno attaccava Peron. Il giorno delle elezioni in Cile spedì identico telegramma di auguri a Pinochet e ad Aylwin. Per battere il radicale Raul Alfonsin aveva raccolto i voti da tutti i peronisti, promettendo giustizia e prosperità: una ricetta che già in passato si era rivelata vuota di contenuti rna che fa sempre effetto qui a Buenos Aires dove si ricordano con struggente nostalgia gli anni d'oro della guerra e del primo dopoguerra. Ma una volta preso possesso della Casa Rosada, ha deciso che per risolle¬ vare le sorti di un economia allo stadio terminale, la terapia giusta fosse privatizzare tutto e il suo peronismo viene chiamato «menenismo»: ha cominciato con le Aerolinas Argentinas, ì telefoni e le autostraae. Poi toccherà a costruzioni navali, metropolitana, energia elettrica. Inoltre vuole licenziare 200 mila dipendenti del pubblico impiego. Rischia un tracollo politico. Nelle consultazioni parziali, il suo partito ha subito una serie di disfatte e ora si aspetta con ansia il confronto di primavera per il rinnovo di un terzo della Camera e di alcuni governatorati, tra cui quello di Buenos Aires. Ma il Presidente ripete: «Non importa il prezzo politico che devo pagare». Controlla parte dell'esercito e ha spaccato in due ì sindacati e non mostra incertezze. Ad esser preoccupati, semmai, sono i suoi avversari, primo fra tutti l'ex presidente Alfonsin che non riesce a fronteggiare un avversario tanto imprevedibile. Per potersi ripresentare alle elezioni Menem tenta di modificare la Costituzione e Alfonsin, che evidentemente pensava a se stesso, gli ha risposto che la cosa è possibile, ma il potere dovrà passare nelle mani di un ministro. «Va bene», ha risposto il Presidente. E ora si tratta. Quando era avvocato a la Rio- ja, nel Nordtorrido, osteggiava il potere dei militari: finì in carcere, come tanti nell'Argentina di quegli anni, ma più di altri ricevette una mano dalla sorte. Come in questi giorni, del resto, perché il tentato golpe dei «carapintadas» gli ha restaurato l'immagine un po' ammaccata. Usa tutti i privilegi del potere presidenziale, ma senza sottolineare la cosa. Come quando ha deciso di inviare due navi da guerra nel Golfo. Neppure quasi risponde a chi lo accusa di tollerare una corruzione galoppante fra i seguaci, soprattutto fra quelli deila primissima ora. Non si mostra preoccupato, anzi ripete: «Cadranno delle teste». Dicono che porti jella e difatti gli argentini evitano di parlare di lui e quando proprio non possono farne a meno preferiscono storpiarne il nome: lo chiamano Mendes. Pare indifferente alle pesanti ironie sulla sua famiglia e sulle sue abitudini private. Alle spalle ha un matrimonio in pezzi ma per motivi elettorali si erano rimesso con Zulema: ora si son di nuovo lasciati. Gli hanno regalato una Ferrari Testa Rossa e a chi vorrebbe che la consegnasse allo Stato risponde: «E' mia». Così, dopo averlo chiamato jettatore ora lo chiamano «nino». Un bambino capriccioso. Vincenzo lessandoti li generale Jorge Videla riceve la comunione poche ore dopo la liberazione. Fu presidente dell'Argentina dal 76 all'81 e venne condannato nel dicembre del 1985