Addio a Bedeschi lo scrittore soldato
Addio a Bedeschi lo scrittore soldato Autore di Centomila gavette di ghiaccio Addio a Bedeschi lo scrittore soldato Stroncato da un infarto a Verona Raccontò la ritirata dalla Russia VERONA. Giulio Bedeschi, medico e scrittore, é morto ieri alle 18,30 nella sua abitazione di Verona per arresto cardiocircolatorio. Aveva 75 anni. Colpito dall'influenza, era andato a riposare nel pomeriggio ed è morto nel sonno. E' l'autore di «Centomila gavette di ghiaccio», il notissimo romanzo che racconta la tragica ritirata delle truppe italiane dalla Russia. «Era rimasto un alpino, nel modo di essere e di ragionare, e lo straordinario successo di Centomila gavette di ghiaccio, ristampato più volte e tradotto in più lingue, deriva proprio da questo: Bedeschi rimase fedele a se stesso». Eugenio Corti, autore de I più non ritornano, (Mursia) diario di 28 giorni in una «sacca» del fronte russo e di Cavallo Rosso, romanzo imperniato sull'ultima guerra e sulla ritirata di Russia, ricorda così l'autore del best-seller pubblicato nel '63. Come definirebbe Bedeschi? Un poeta nativo, un cantore istintivo delle radici, di quel mondo di semplicità e valori forti che nelle sue pagine trovò la più compiuta espressione. Lo conobbi ad un raduno alpino in Brianza. Era un uomo che raccontava volentieri e anche quel giorno, circondato da alpini vecchi e giovani, non si fece pregare. Del resto aveva raccolto un materiale imponente, basti pensare a quel quarto volume della serie straordinaria, Fronte russo: c'era anch'io, dove aveva raccolto le testimonianze dei superstiti di sei divisioni: la «Ravenna» la «Cosserìa», la «Pasubio», la «Celere», la «Torino» e la «Sforzesca». Fanti, carabinieri, bersaglieri, artiglieri, medici e cappellani di guerra, fornirono a Bedeschi la loro umile e sincera testimonianza, permettendogli di continuare un'opera che si può considerare unica al mondo nel panorama della letteratura di guerra. Che cosa le raccontò Bedeschi? Un episodio di cui era stato protagonista durante la ritirata. Curava i feriti, molti li aveva visti spirare sotto i suoi occhi. La ritirata si era trasformata in carneficina: per aprirsi la strada gli alpini dovettero affrontare imprese tremende, battersi con l'accanimento che gli veniva dalla disperazione. «Ic facevo il medico - raccontava Bedeschi - e per alcuni giorni rimasi con le mani imbrattate di sangue. Medicavo un ferito dopo l'altro, non c'erano farmaci, i ferri si rompevano nella morsa del gelo, passò parecchio tempo prima che riuscissi a pulirmi. Ricordo il momento in cui immersi le mani nell'acqua tiepida di un catino. L'acqua si colorò di rosso, il sangue rappreso si sciolse e il liquido diventò una melma rossastra, spessa e sporca. Questo è il sangue dei miei compagni, dei morti e dei feriti - disse Bedeschi - me l'avevano lasciato perché mi ricordassi di loro». Questo era Bedeschi: un uomo tutto d'un pezzo, leale, generoso, ancora capace, a distanza di tanti anni, di commuoversi come un bambino. La critica non lo capì, ma per fortuna lo capirono i lettori e soprattutto gli alpini. Perché la critica non lo capì? Non fu mai considerato uno scrittore: quindici editori rifiutarono Centomila gavette di ghiaccio e quando Mursia lo pubblicò vendette un milione e mezzo di copie. Bedeschi vinse il premio Bancarella. Mauro Anselmo Giulio Bedeschi aveva 75 anni
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