I COMPUTERS DI FABRO

ICOMPUTERS DI FABRO ICOMPUTERS DI FABRO bianca e disposte su un piatto in terra poco lontano dal libro: scartandole, noi ne leggiamo all'interno frasi interrotte, tratte dal volume: «A questo punto occorre una precisazione: io non mi aspetto nessun particolare trionfo del bene; si tratta d'altro. Sono le idee chiave che mi interessano e non le lacrime di coccodrillo dei futuri gendarmi». Con mezzi di questo genere Madezda e Opis, non potendo stampare la scrittura, facevano circolare il loro pensiero di libertà. Il libro autobiografico di Nadezda comprende il suo pensiero e quello del marito: e un trattato teorico e ideologico sull'arte, a cui Fabro fa spesso riferimenti nel suo lavoro, come in Iconografie del 1975. Le «caramelle di Nadezda» sono state distribuite il giorno dell'inaugurazione da studenti dell'Accademia di Brera. Concentrate sotto forma di massime e di aforismi, la scrittrice enuncia terribili verità, represse e vessate: oggi ritrasmesse sulle cartine delle caramelle, ne viene ridata specialmente ai giovani la sapienza. In proposito, dice l'artista: «Vi sono ormai delle generazioni che non hanno più l'esperienza delle "massime". Hanno soltanto l'esperienza del dubbio». Molto importante per Fabro è il rapporto con le nuove generazioni, da lui esercitato attraverso l'insegnamento all'Accademia di Brera. «Tutte le novità del pensiero nascono dal dialogo» afferma poi Fabro, che crede all'opera d'arte come pensiero, come confronto intellettuale, e soprattutto come comunicazione. In quest'ottica, che ha stretta analogia con quella dei Mandel'stam, è possibile leggere le opere che costituiscono il secondo nucleo della mostra, i Computers: così chiamate in quanto si autoprogrammano, si autocalcolano, affrontando il problema intrinseco all'elaboratore elettronico: autorganizzarsi. Si tratta di opere portate al limite estremo di riduttività di immagine e di forma, costruite con profilati modulari di scaffalature metalliche, tondini di ferro colorati, pesi, e sospese a catenelle: hanno l'interna qualità di autocostruirsi, in quanto tutte le componenti dell'opera sono modificabili senza che nulla cambi nell'immagine. «La loro qualità - dice Fabro - è di trovare da sole la forma, in qualunque modo si dispongano». Sulla parete di fondo due grandi lettere AR in morbida stoffa colorata ribadiscono la radice sanscrita che sta all'origine di Arte, Ara, Arto, Arma e anche di Numero, Contatore, Scorrere, vale a dire di tutti i movimenti. Con questa mostra Luciano Fabri, sorretto dalla globalità del pensiero di Nadezda, prosegue nel suo straordinario lavoro di scavo dietro l'immagine e dietro la forma, percorrendo territori finora inesplorati, ai limiti ultimi della pittura e della scultura, e della stessa arte. Un processo di azzeramento (e di ricostruzione) dell'arte da lui iniziato al principio degli Anni Sessanta, le cui radici sono nel lavoro di Fontana e di Manzoni suoi maestri, e il cui obiettivo, per usare le parole di Fabro, è quello di «raggiungere lo specchiamento della propria coscienza... creando un'opera che permette anche agli altri di specchiarsi in essa». Mirella Bandini