PARDINI: LE PAROLE SALVANO GLI ANIMALI di Bruno Quaranta
PARDINI: LE PAROLE SALVANO GLI ANIMALI PARDINI: LE PAROLE SALVANO GLI ANIMALI MSTABBIANO ORO è il mulo. Il manto infangato, cretoso: avvoltolarsi nella terra è il suo elisir, l'unguento che sana ogni ferita, anche il male di vivere. Le orecchie sono sensibilissime, toccarle è impossibile, sfiorarle quasi: il primo e l'ultimo a stringerle fu il castrino, quando recise senza anestesia, stagioni fa. Lo zoccolo raspa il prato: batacchio d'osso ferrato che incoccia il gong, segnale di un appetito robusto, come la massa di giunture che lo annuncia. L'uomo porge una razione di pane e invita l'ospite a fare altrettanto. Moro accoglie e ringrazia offrendo il muso, lasciandoselo accarezzare. Superata la prova-accoglienza (eco del test di Rousseau: riceveva solo chi confessava di amare i gatti, un distintivo di libertà), Vincenzo Pardini fa strada verso il casolare affondato in un placido autunno della Media Val di Serchio, in Lucchesìa. Attizza il fuoco nel camino e si abbandona sulla seggiola. Quarantenne, baffetti e capelli (pochi) fulvi, maglia verde, jeans, rotondo, evoca i clown scuola Buster Keaton, in bilico fra araldiche malinconie e divertite inquietudini. Soppesa la pistola, che lo scorta nel lavoro di guardia notturna («Vorrei sbarcare il lunario con i libri e le collaborazioni letterarie, ma è impossibile. Pensi: le interviste agli .scrittori le faccio per posta, la Nazione non mi rimborserebbe le telefonate»); schiera occhi ora acquosi ora rigidi, cristallizzati; tormenta i fogli zeppi di cancellature («Vi sono storie che non vogliono saperne di nascere») e subito li ripone. Perché macerarsi? Questi sono giorni di festa intorno alla Mappa delle asce, i racconti appena usciti per i tipi di Theoria (pp. 136, L. 9.000), un manuale di zoologia fantastica. Lo popolano civette «ciucche di uva matura», tori «immobili come promontori di muscoli», soriane «felpate come una sensazione», maniscalchi «piccoli e larghi come dadi», vecchi «Liegi a canne affiancate». (Ma è anche in agguato la pantera blu, il velocissimo artiglio di Gnenco il pirata, Emme Edizioni). Figure e oggetti pacificati da una lingua colma di toscanità, che sa nominare - non offendendo neppure un nervo, una sfumatura - gesti, amori, atmosfere: l'alba spicchiora, si levano fantasime di fumo, il contadino biada il cavallo. Le bestie di Pardini - «immensamente superiori a noi: custodiscono il mistero della natura e lo sanno, decifrare» grondano diffidenza e crudeltà verso l'homo sapiens: «Meritiamo forse abbracci, tali e tante efferatezze abbiamo riversato sul regno animale?». Lo scrittore, «riconosciuto» da un critico quale Cesare Garboli, aspira le parole, con la foga di Kirobi, un suo lupo immaginario: «Si dice: tornano i cervi, i daini, le volpi, le poiane, gli allocchi, i gufi, le istrici. Vero. Ma dove cercano rifugio? Lon¬ tano dall'uomo, in boschi così trascurati - quasi tutti - da essere inaccessibili. Occorre incendiarli per stanare la selvaggina: lo sanno bene i bracconieri, che non lesinano di sicuro l'alcol e la benzina». Pare acquetarsi, tocca la corda sardonica: «La vacca garfagnina: non sono riusciti a salvarla. Per incontrarla bisogna attraversare l'Oceano, spingersi in America». Riagguanta le doppiette, fuorilegge e con licenza: «Cacciare: perché? Aveva senso tre secoli fa. Ora, con i supermercati ripieni di carni, no. Chi impallina un pettirosso dimostra di abbisognare di un'elemosina. Miserrimo spettacolo». Nella libreria lungo la parete di fondo, un paio di guantoni da boxe protegge Tolstoj e Conrad. «Ero tra gli sparring partner di Mazzinghi - mostra i pugni Pardini -. Picchiava, e forte. La prima, autentica lezione di vita me la diede lui." "Per mangiare merda, caro Vincenzo, ci vuole coraggio. E a te non manca"». Anni lontani, metà dei Sessanta. Il campione si ritirò nel Sessantotto. Pardini coglie al balzo: «Un'esperienza che ho evitato. Merito di Kafka, di un suo grano di saggezza: "Non c'è rivoluzione che non lasci dietro di sé il limo di una nuova burocrazia"». Eppure, di illusioni, la penna che ha liberato La volpe bianca (titolo d'esordio, 1980) e II falco d'oro ne ha coltivate, salvo vederle crollare, come il capitano Raffo Ghilanti, protagonista di una «mappa»: «Il pacifismo, ad esempio. Irridevano Cassola. E invece Cassola batteva il chiodo giusto, era un profeta». Un «veggente», come gli animali che ne affollano le estreme opere. E come gli «eroi» dell'autore lucchese: «Ci annunciano - loro sul declivio della scomparsa - un futuro di perdizione. E noi ridiamo, come i passeggeri del Titanio). Il gong suona anche per Pardini. «Da Mariano», il ristorante, è sul poggio. Il tavolo, dinanzi al noce, attende al piano di sopra. «Qui vengo ogni settimana con Mario Tobino - avverte Pardini -. Si cena fra le cinque e le sei. Il dottore non ammette deroghe: vale sempre la scansione temporale del manicomio di Magliano. Giovedì scorso era felice: "Ho terminato un racconto - mi ha confidato -. Trentotto pagine. Non mi resta che ordinare gli avverbi e gli aggettivi». Corrono parole e vino. Poi, come obbediente a un richiamo ancestrale, mitico, s'inarca il silenzio. Il cameriere è una sentinella etrusca. Vincenzo Pardini, guardingo, raggiunge la finestra alle sue spalle. Fulvo, verde, azzurro, è una decalcomania che copre l'intero spazio. Oltre la «ola» rossiccia e bronzea dei castagni, «vede»: Moro che scalcia, il gatto che tiene in scacco la poiana, la volpe ferita che rovista nella ciotola. Lo scrittore-guardiano è percorso da un singolarissimo «tremoto», una miriade di scosse di assestamento: sembra che si cali in una pelle o in una tana. Ligabue l'amerebbe. Bruno Quaranta / incalzo l'ardii li: fjuhblica «La tnap/xi delle asce» e «Cinetico il pirata»
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