Quel «segreto» di Sogno di Gianni Bisio

Quel «segreto» di Sogno... Quel «segreto» di Sogno... Le «interferenze» italiane sui fatti del '56 in Ungheria Prima Aldo Moro, poi Giulio Andreotti opposero il segreto di Stato alla magistratura per impedire la consultazione, alla Farnesina e a Forte Braschi, sede del Sid, dei fascicoli personali dell'ambasciatore Edgardo Sogno, accusato di complottare era il 1974 - contro le istituzioni democratiche della Repubblica e assolto, quattro anni dopo, «perché il fatto non sussiste», ma guardato sempre con sospetto dalla sinistra. Tuttavia quella imposizione dall'alto del segreto costò molto cara a Sogno, perché calò sul suo passato un velo tanto opaco quanto sospetto. In realtà voleva nascondere soltanto un'operazione portata a termine, nel 1956, tra Vienna e Budapest, quando il diplomatico era consigliere d'ambasciata: «Ma anche soggetto anomalo e difficile di fondamentalista democratico anticomunista», come si definisce oggi lui stesso. Così un'operazione sì ai limiti della legalità, ma autorizzata dal governo, finì per essere interpretata molto diversamente, quasi come la copertura «di inconfessabili manovre di servizi più o meno deviati». Sogno, oggi settantacinquenne, nella sua casa di via Donati, sfoglia i ricordi di quella storia: documenti, fotografie, minute di rapporti al ministero degli Esteri, tutti contenuti in un faldone con su scritto «Ungheria». Sono passati 34 anni. Questa primavera, alla trasmissione televisiva di Zavoli sul terrorismo, «La notte della Repubblica», Sogno ha rivelato, proprio alla presenza del suo accusatore di ieri, il giudice Luciano Violante, oggi vicepresidente dei deputati comunisti, che il «segreto» riguardava quei fatti del '56 e nulla che fosse pertinente al processo, come peraltro dichiararono, non creduti, Moro e Andreotti. «Da quando la stessa Unione Sovietica ha ufficialmente rinnegato la dottrina di Breznev sulla sovranità limitata dei Paesi fratelli - spiega ancora Sogno non esiste più alcun interesse né giustificazione da parte del governo italiano a nascondere ciò che fece, o lasciò fare, nel '56 a dei funzionari diplomatici contro il governo fantoccio imposto all'Ungheria dai carri armati sovietici. Perché questa fu la vera e unica ragione dell'imposizione del vincolo: evitare l'accusa di interferenza nella politica interna dell'Ungheria». E qualche interferenza ci fu sicuramente, autorizzata o almeno tollerata. Con Sogno, in quel periodo, c'erano due colleghi e amici: l'ambasciatore Livio Theodoli, allora vicedirettore degli Affari politici, marito di una cittadina ungherese, e l'ambasciatore Mario Mondello. Nell'ottobre '56, alle prime notizie della rivolta operaia e studentesca di Budapest, Sogno partì per Vienna. Ricorda: «Trovai la capitale austriaca trasformata in un posto di retrovia, dove le notizie dalla prima linea si susseguivano, drammatiche. Vissi quei giorni memorabili con rabbia e disperazione, odiando il distaccato pessimismo dei colleghi e il rassegnato disorientamento dei politici, fra confidenze e riserbo degli addetti militari della Nato che operavano al confine, coi servizi segreti, aiutato negli innumerevoli contatti dall'entusiasmo di due amiche, originarie dell'Est europeo: Dida Theodoli, moglie ungherese dell'ambasciatore, e Lilly Rohan, moglie cecoslovacca di Gigi Cottafavi, allora segretario della nostra ambasciata». Sogno dice di essere stato convinto all'inizio che se gli Stati Uniti avessero preso rigidamente posizione a favore du Nagy e Maleter sul diritto all'indipendenza del Paese, non ci sarebbe stato alcun pericolo di guerra e i sovietici non si sarebbero mossi. Allo stesso modo fu sicuro, all'indomani dell'arrivo dei carri armati, che «i sovietici, sempre contrari all'avventurismo, avevano deciso l'intervento solo dopo aver accertato che da parte Usa non vi sarebbe stata nessuna reazione concreta». Che cosa fece Sogno a Vienna? Concretamente cercò di far fuggire - e ci riuscì - alcuni tra i principali leader della rivolta, a cominciare dal maggiore Jancovic, braccio destro di quel generale Maleter che sarebbe stato poi fucilato dai sovietici. Due volte si introdusse in territorio ungherese insieme con Dida Theodoli per favorire la fuga dei rivoltosi. Sogno rion lo dice, ma c'è da credere che abbia usato metodi non dissimili da quelli impiegati durante la resistenza in Italia, dai documenti falsi in avanti. E di certo qualche «interferenza» nella politica interna ungherese ci fu, o almeno ci fu un tentativo, se Sogno così ricorda quel periodo: «L'illusione più dura a morire fu quella, cara alla mia esperienza partigiana, di poter organizzare ed alimentare una resistenza armata nelle zone del Paese più adatte alla guerriglia. E pensavo, purtroppo a torto, che almeno a questa azione antisovietica, coperta e indiretta, il governo americano e qualche altro Paese dell'Alleanza, avrebbero acconsentito, come sarebbe avvenuto più tardi in Afghanistan. Ma dovevo convincermi ben presto che un movimento di resistenza si regge e si sviluppa soltanto avendo alle spalle una potenza che gli assicuri, moralmente e materialmente, delle probabilità di successo». A gennaio '57 Sogno è nuovamente a Vienna per aiutare i rifugiati, 150 mila delusi: «Gli ungheresi democratici - ricorda - si sentivano traditi. A coloro che avevano riposto fiducia nelle parole di "Radio Free Europe", e contato sull'aiuto occidentale, era impossibile spiegare perché ogni concreta solidarietà era venuta meno nel momento decisivo, e per di più per una scelta così legittima, moderata e pacifica come la proclamazione della neutralità tra i due blocchi». Sogno convinse Jancovic a venire in Italia, con 200 altri profughi, studenti, professori, intellettuali, che ebbero un aiuto economico dal ministero degli Esteri e si stabilirono a Genova. A Torino, dal 21 al 23 luglio del '57 si svolse il Congresso mondiale dei combattenti ungheresi per la libertà, organizzato da Sogno. «Vidi ancora Jancovic a Zurigo, nel '58, poi seppi che si era trasferito in Brasile», ricorda l'ambasciatore. Dell'operazione segreta resta solo il fascicolo polveroso, ormai declassificato, un pezzo non più misterioso di storia di questa Italia dei misteri. Gianni Bisio