I bambini col mitra che difendono Kabul

I bambini col mitra che difendono Kabul I bambini col mitra che difendono Kabul La gente è stanca di un massacro che non ha più un perché TORINO. «Non ho mai cercato la guerra a tutti i costi. Soltanto, dopo anni di Himalaya, ero sempre meno motivato dalle imprese alpinistiche e sempre più attratto dalla cultura, dalla storia, dalla vita delle popolazioni asiatiche. E cosi ho chiesto un visto per entrare in Afghanistan». Carlo Stratta, torinese, alpinista e fotografo, è tornato da poco dall'Afghanistan, un Paese stremato da 12 anni di guerra. A più di un anno dal ritiro delle truppe sovietiche, il governo di Najibullah è ancora al suo posto. La guerriglia dal canto suo si è gradualmente frantumata in tanti gruppi antagonisti, che si fronteggiano in sanguinosi combattimenti. Nel racconto di Carlo Stratta però l'analisi della situazione politica e militare passa in secondo piano rispetto all'interesse etnografico. L'obiettivo della sua macchina fotografica si è fermato innanzitutto sulla popolazio¬ ne, sui soldati, i guerriglieri, i bambini con mitra più grandi di loro stretti tra le braccia, la gente dei villaggi, i nomadi, i profughi di Kabul. Ed è al popolo afghano che Stratta ha dedicato il suo reportage. Ha girato per Kabul, dove vivono attualmente 2 milioni e mezzo di persone, in gran parte profughi. «Le condizioni di vita sono nel complesso buone - dice - . Si trovano i generi di prima necessità c durante la giornata non si ha quasi mai l'impressione di trovarsi in stato di guerra. Salvo poi tornare drammaticamente alla realtà, quando scoppia una mina o cadono i razzi e la gente salta per aria...». Sono i razzi di fabbricazione americana. Arrivano ai guerriglieri attraverso Egitto, Arabia e Pakistan. I governativi invece contano sui missili «Scud» che arrivano in aereo dall'Urss con la farina. Prosegue Stratta: «Ho visitato l'Università, è molto ben orga¬ nizzata. Anche gli orfanotrofi e le strutture assistenziali funzionano bene. Poi sono stato all'interno, fino a Mazar-i-Sharif, a circa 80 chilometri dal confine russo. Ho attraversato, con mezzi di fortuna, zone in cui si combatteva e sono stato tra i primi a raggiungere Paghman, 30 chilometri da Kabul, una cittadina in posizione strategica difesa strenuamente dai mujaheddin e caduta da poco in mano alle truppe di Najibullah. Il capo più influente dell'opposizione è il leggendario Massud, il 'Leone del Panjshir'. Controlla e amministra le regioni nord-orientali, Badakshan, Kunduz, Tokar e il corridoio che collega con il Pakistan. Parlando con la gente, si capisce che Massud gode delle simpatie di tutti perché, a differenza di altri capi, non è un estremista quindi potrebbe essere l'uomo giusto per un accordo con Najibullah». «La gente è stanca della guerra - dice Stratta - . Finché c'erano i russi, avevano buoni motivi per combattere. Ora però che gli invasori se ne sono andati, è difficile trovare giustificazioni valide per continuare il massacro. La gente vedrebbe di buon occhio la transizione del Paese verso elezioni libere, anche perché si rende conto che la vittoria militare di una delle fazione d'opposizione o degli stessi governativi è estremamente improbabile». Ricorderò sempre, la prima notte a Kabul, l'impressione che mi fecero i ragazzini cui era affidata la guardia della città. Ragazzi di tredici, quattordici anni con i mitra in mano e pieni di paura che, per tutta la notte, continuano a chiamarsi l'un l'altro per farsi coraggio, per sapere se gli amici sono ancora vivi. Le loro voci sono a volte lamenti, sussurri, o suoni incomprensibili che, con le prime luci del'alba, spariscono nel nulla». Paola Campana