L'ITALIANO DOPATO

L'ITALIANO DOPATO L'ITALIANO DOPATO Nel nuovo dizionario Devoto-Oli la lingua dei mass media ^"V PERUGIA M m UATTRO tavolarotonfl H disti hanno dopato l'iH H taliano. Cos'è? Uno H scherzo di carnevale? I No, solo un possibile H esempio di «notizia ■ ■ orale» messa per iscritto, con parole ^J^^ magari brutte ma buone, registrate nel nuovissimo Dizionario della lingua italiana, voluto nel '71 da Giacomo Devoto ora ripensato da Gian Carlo Oli: 115 mila lemmi, 40 mila in più rispetto alla prima edizione. Significa che in questi vent'anni la nostra lingua ha cambiato almeno un terzo della sua pelle, è ingrassata, nutrendosi sempre più di forestierismi (il basic english innanzitutto) e di linguaggi tecnici, speciali, gergali, diffusi dai mass media. Una lingua ipertrofica? Giovedì scorso a Perugia, l'editrice Le Monnier ha messo a confronto con l'autore protagonisti e testimoni: Enrico Manca, presidente della Rai, Stefano Lepri, ex direttore dell'Ansa, Giuseppe De Rita, presidente del Censis. L'italiano è inquinato, contaminato, imbastardito, corrotto, drogato? Certo, il risultato del doping è inappellabile. Ma è altrettanto vero che la nostra lingua sta benissimo: è più ricca, feconda, libera, fluida, funzionale, soprattutto è più parlata e scritta, anche se spesso in modo banale e sciatto. Sornione e sma¬ gato come sempre, De Rita ha condensato in un'immagine questo cambiamento sociolinguistico. Tre «magneti» hanno rigenerato l'italiano. Primo: siamo diventati più internazionali, abbiamo incorporato i linguaggi delle nuove tecnologie e professioni, dall'informatica alla finanza. Secondo: stiamo nel contempo recuperando le nostre radici, il ritorno al dialetto non è folklore ma bisogno di identità, ora che si sono infranti altri legami di appartenenza («siamo nudi di ideologie, partiti, chiese. Il leghismo è lì a dimostrarlo). Terzo: abbiamo assimilato la psicoanalisi, rivendichiamo il diritto alla soggettività, riferiamo cose e parole innanzitutto a noi stessi (è l'ora della fitness). Così il primato dell'oralità, un'eredità del '68, ha infranto la cristallizzazione secolare di una lingua oligarchica, prodotta da un'elite burocratico-letteraria e trasmessa da un'Autorità unica, lo Stato con la sua scuola. I mass media sono stati i veicoli principali di questa lingua sempre più meticcia, piaccia o no. Sergio Lepri, ad esempio, non ha rimpianti per gli artifici, la retorica, lo spagnolismo nefasto del bello scrivere. Ma ai giornalisti rimprovera di scrivere troppo spesso come «inquilini del piano di sopra», per sentirsi vicini a «chi conta», e teme il «giornalistese», perverso connubio di codici e gerghi, sempre più condizionato dai moduli pubblicitari, dalla sindrome dello spot, enfatico, iperbolico, spettacolare («se vale la regola: sbatti il mostro in prima pagina, quando il mostro non c'è, ce lo inventiamo, pur di vendere?»). Anche per Enrico Manca resta fermo il merito della tv, la prima e unica maestra d'italiano per quell'80 per cento di cittadini che negli Anni 50 parlavano d'abitudine solo il dialetto. Eppure lamenta la «corruzione» della lingua, la perdita della sua identità nazionale, e rivendica una «politica di salvaguardia», un'«autorità di tutela», chiama in causa la Presidenza del Consiglio, naturalmente senza arrivare agli estremi sciovinistici dei francesi, che a noi ricorderebbero Mussolini. (Ma l'invocazione cade nel silenzio. Come per dire: ci manca solo la lottizzazione del vocabolario, tra Palazzo Chigi, via Mazzini e Accademia della Crusca). Nella cosmopolita Perugia, nello splendido guscio medievale di Palazzo dei Priori, sotto le volte arcuate della sala dei Notari, non risuonano apologie del purismo. Per il professor Oli, to¬ scano corpulento e pragmatico, la lingua «non è una razza canina». Chi vuol difendere con orgoglio e puntiglio il nostro giardino italiano, dovrebbe sapere che orgoglio, puntiglio, giardino sono parole straniere adattate all'italiano. Il lessicografo «non è un giudice», registra «briefing e refuznick, hacker e intercooler, pubblivoro, quizzarolo e videota, maializzazione e cazzeggiare», il vocabolario è una mappa dell'esistente, «un servizio pubblico e civile»: con questo spirito si è lavorato in Le Monnier (senza mai usare nelle definizioni parole straniere) e il Devoto-Oli ha già esaurito la prima edizione di 70 mila copie. Nessuna battaglia persa in partenza contro un italiano agli estrogeni: «La ridondanza di parole nuove in sé non mi preoccupa», dice Oli. «La proliferazione metastatica è la caratteristica del nostro secolo», conferma De Rita citando Baudrillard. La lingua va dove la portiamo noi. Se non abbiamo più modelli, non per questo dobbiamo essere succubi di tutte le mode. Ma qui non c'entrano le regole lessicali, le norme grammaticali e sintattiche. E' una «questione sociale», riguarda gli uomini e le cose, le coscienze e i valori, prima delle parole, insiste De Rita: altrimenti sarà inevitabile «annegare nel galleggiamento». Luciano Gerita p pdici, il ritorno al dialetto non è olklore ma bisogno di identità, ,stallizzazione secolare di una lingua oligarchica, prodotta da p, Il Devoto-Oli enee rinnovato do Li'Mounier vent'anni'dopo la /a edizione Il Devoto-Oli enee rinnovato do Li'Mounier vent'anni'dopo la /a edizione

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