Da Marx a Kafka con malinconia di Sergio Quinzio

Da Marx a Kafka con malinconia Da Marx a Kafka con malinconia SE consideriamo la realtà contemporanea, non si può trovare eccessiva l'espressione «giudaizzazione del mondo». E' l'espressione che Marx, nella Questione ebraica, usa in senso negativo, ma, a guardar bene, non soltanto negativo: il «bisogno pratico», la «prassi», possono essere disumanizzati e devono essere umanizzati, ma certo Marx non intende voltare le spalle allo «spirito pratico dell'ebreo», allo «spirito pratico giudaico». Proprio nel secolo in cui l'odio antiebraico ha raggiunto estremi di crudeltà inaudita, proprio nel secolo della shoah, gli ebrei, fenomeno davvero unico, hanno risuscitato la loro lingua e hanno riedificato un loro Stato. Quel che più conta, se l'influsso di questo piccolo popolo è stato profondo in tutta la storia dell'Occidente, segnandola anzitutto con il suo «monoteismo etico», i suoi pensatori e i suoi autori non hanno mai esercitato un influsso tanto grande quanto nel secolo che avrebbe dovuto segnarne il completo sterminio. Non è importante far nomi, e se ne dovrebbero comunque fare troppi, ma senza Marx e il marxismo, senza Freud e la psicoanalisi, senza Einstein e la relatività, o senza Kafka, senza Wittgenstein, il mondo contemporaneo non sarebbe ciò che è. La giudaizzazione del mondo, che culmina nel nostro secolo, consiste nell'affermarsi delle categorie ebraiche, le quali, anche quando assumono vesti non ortodosse e persino esasperatamente lontane dalla tradizione, restano pur sempre riconoscibili come filiazioni o metamorfosi di una vocazione risalente, nella sua origine, alla rivelazione biblica. A differenza di altri orizzonti, il pensiero ebraico è dinamico, pluriforme, irriducibile a sistema. E' la sua imprendibilità a renderlo inconfondibile. Sono gli ebrei, i quali amano l'autoironia, a dire che dove si trovano due di loro si formano immediatamente tre partiti. Si spalancano abissi fra un rigoroso talmudista e un chassid, fra un ebreo occidentale assimilato e uno yemenita o un falascià, fra un ebreo della diaspora e un israeliano, fra rabbaniti e caraiti, fra uno che attende ardentemente il Messia e un maestro della halakhah, tra un «falco» e un ultraortodosso che manifesta innalzando il cartello «il sionismo è nazismo», fra i pionieri di appena ieri e gli autori israeliani di oggi come Amos Oz, che vede Israele come «un cadavere al quale continuano a crescere per un po' le unghie e i capelli». Differenze profonde si ebbero del resto da sempre all'interno della stessa ortodossia rabbinica, persino per quanto riguarda il canone delle Scritture sacre. L'ebreo orientale, scrive Joseph Roth in Ebrei erranti, «è un ebreo di Dio. Non lotta per la Palestina. Odia il sionista che con i ridicoli sistemi europei vuole erigere un ebraismo che non sarebbe più tale, in quanto non ha atteso il Messia... Tra una simile ortodossia e un sionismo che consente di costruire strade anche di sabato non è possibile alcuna conciliazione. A un chassid ebreo-orientale e a un ortodosso è più vicino un cristiano che non un sionista. Perché il sionista vuole modificare l'ebraismo dalle sue fondamenta. Vuole una nazione ebraica che si presenti più o meno come una nazione europea». Ma proprio in questa perennemente inappagata e inquieta condizione si rivela il volto intimo e indiviso dell'ebraismo. «E' qui evidentemente il centro stesso dell'inquietudine infinita dell'ebreo, di questa inquietudine che lo rende, a quanto pare, insopportabile. L'ebreo è nella sua essenza contraddittorio, e lo si accusa allora di non sapere ciò che vuole. In realtà vorrebbe cose contraddittorie», come essere e non essere diverso dagli altri popoli. Non accettando «di essere come gli altri né un altro dagli altri... accetta di essere un altro da sé sviluppandosi all'infinito, sfuggendo a se stesso» (Jankélévitch, La coscienza ebraica). Perciò il modo ebraico di essere è, da sempre, il peregrinare, l'errare del nomade. Di qui deriva un'invincibile propensione ad abbattere i confini (come disse Weininger, insieme alla Weil uno dei più drammatici casi di antisemitismo ebraico), a rompere gli schemi dati, a disgregare certezze e delimitazioni consolidate. La presenza ebraica risulterà, così, assai rilevante in ogni impresa di rivolgimento storico; e la stessa figura dell'intellettuale moderno, con la sua carica critica nei confronti della società, è figura ebraica, a cominciare da Heine, dagli ebrei che usciti dai ghetti presero il posto dei dotti e degli artisti ospiti ossequienti delle corti. Nella forza critica propria dell'intellettuale ebreo vibra ancora qualcosa dell'antica tradizione antiidolatrica del suo popolo. La fondamentale rivoluzione, quella alla quale ancora apparteniamo e nella quale consiste il passaggio dall'antico al moderno, è la rivoluzione ebraica, che ci ha portato dalla sacralità cosmica alla profanità della storia. Ma è nella contemporaneità, più che nella modernità, che la giudaizzazione del mondo ci si mostra con la più grande evidenza: nella contemporaneità, intesa come esito della modernità, come delusione delle sue aspettative, come suo esplicito scacco. Alla concreta speranza storica dell'ebreo non si offrono facili luoghi di fuga nel celestiale, nel sublime: essa è condannata al duro impatto con la realtà. L'ebreo vive nel tempo, vive nella precarietà, teso fra gli estremi della speranza e della disperazione. E' segnato perciò dalla malinconia, il più moderno dei sentimenti. Se figure come Marx e come Freud restavano ancora all'interno di un orizzonte mentale ottocentesco che intendeva presentarsi come totalizzante, l'intellettuale ebreo contemporaneo ha manifestato proprio attraverso le sue angosce - basti il nome di Kafka - una sensibilità che precorre la radicale mancanza di riferimenti, l'insicurezza, la lacerazione che domina la nostra scena. Sergio Quinzio

Luoghi citati: Israele, Palestina