Il mio amico Chet Baker...

Il mio amico Chef Baker... E' quasi sicuro: omicidio Il mio amico Chef Baker... E' quasi ufficiale: Chet Baker, presunto suicida nell'estate dello scorso anno, sarebbe stato invece assassinato, quella maledetta notte ad Amsterdam, da uno spacciatore. Si tratterebbe di un regolamento di conti tra un consumatore moroso e un «pusher» inesorabile, rappresentante di una razza feroce, repellente, sempre e comunque assassina. Queste sono le voci che si raccolgono di notte quando la gente parla, nei caffè, nei club dove si fa del jazz da Parigi a Stoccolma, Copenaghen... mentre la polizia non ha mai precisato con un comunicato ufficiale quali siano stati i risultati delle indagini sul «caso Baker». Allora, nel '62, non sapevamo di vivere con un genio. Un genio, proprio come i Mozart, i Charlie Parker... un genio. Naturalmente ci si rendeva conto fino in fondo che suonare con Chet Baker era un'occusione unica: per imparare, per sentirsi gratificati, per avere in repertorio i brani che amavamo di più, per il gran \naggiarc che facevamo lungo l'Italia, verso l'Europa, con accanto le nostre ragazze, belle, bionde, allegre: una festa mobile, qualche volta faticosa, ma eravamo sempre felici, l'ebbrezza di vivere ci uli tava in volto la forza della giovinezza. E suonavamo con Chet Baker. Un Baker che aveva abbandonato miracolosamente quanto provvisoriamente (sei, sette mesi) la siringa e viveva solamente di musica e di progetti: tanti concerti, un film (che non si farà, almeno quello progettato in Italia), la creazio ne di una comunità di aìtisti in una piccola valle vicino a Siena (non ricordo più il nome della località). Chet suonava così (ma anche Ellington, Davis, Bill Evans usavano il medesimo metodo): si saliva in scena e, giorno dopo giorno, la musica nasceva e si organizzava quasi spontaneamente; era sufficiente seguire quella tromba e conoscere le strutture dei brani. Parco nei suggerimenti, dirigeva a occhiate, era una specie di Great Gatsby con la tromba. Nel grup po c'erano anche il chitanista René Thomas (il massimo soli sta di questo strumento dopo gli storici Djungo e Charlie Chri stian), i sassofonisti e flautisti Bobby Jaspar (che ci aveva raggiunti dopo una lunga parente si americana accanto a JJ. Jo hnson e a Miles Davis) e Jac ques Pelzer. Grande musica: avevamo in mano il mondo, ma la percezione della genialità è tuttavia una folgorazione che ci è da sempre ulienuta. Respiri magari quella genialità ma non la analizzi e la vivi quasi inconsciamente. Chet inoltre aveva il dono della semplicità. Per cultura e con sueludine il genio arriva un nunciuto dai libri di scuola: Giulio Cesare, Leonardo, Beethoven... e poi dai giornali: Mike Bongiomo, Arbore e Boncompagni, Jovanotti, Craxi, Gava. Ma il tipo di genio di cui vorremmo parlare ha qualcosa che lo avvicina al principio divino di potenza, sapienza, infinita leggerezza dell'essere. Nel '62 Chet Baker era considerato uno dei più grandi jazzisti della sua epoca. Ma il genio «annunciato» era Miles Davis. Solamente più tardi mi resi conto che Chet era molto di più. La nostra stagione del jazz, io, Amedeo Tommasi, Giovanni Tommaso e i tre stranieri l'abbiamo vissuta accanto a un genio in assoluto, un musicista con una fede animale nellapropria arte, un musicista naturale che creava con rapida facilità, un jazzista che nel momento della verità si esprimeva con la concentrazione di un maestro zen: tutto veniva fuori leggero, perfetto, ispirato, «geniale». Suppongo che ascoltare Chet e sentirgli fare tutte quelle cose era un fatto paragonabile allo spettacolo offerto dia un prestigiatore: sembra tutto così facile. Ma sono certo che la fase creativa maturasse lentamente anche dentro di lui, ma era uno sforzo che si produceva inventando poesia, lieve come aria: Michelangelo scolpiva la pietra e lì chiunque vede e soppesa con lo sguardo la fatica. John Coltrane, per fare un esempio pertinente, ha inventato il jazz moderno con grande fatica, lavoro, studio, crisi: e si sente: ma questa fatica probabilmente ridurrà nel futuro la portata del messaggio coltra niaìto, un intellettuale, un for zato. Inoltre il cherubino Chet Baker è tra i rari artisti al mondo che non hanno mai voluto fare quattrini par arricchirsi cercando di scoprire un trucco, uno qualsiasi, per fabbricare soldi. Chet si accontentava di guadagnare (e non sempre vi riusciva), di raggranellare quanto gli era sufficiente per pagarsi la droga, un culto, un'abitudine che confinava con il rito, con la terapia, con una malsana sorta di filosofia inventata da un nichilista che crede nel paradiso. Il rapporto fra Chet e il denaro non era assolutamente quel 10 dell'uomo moderno. Per Chet 11 denaro non serviva per ottenere potere, uno status: col de naro si nutriva, anche di droga. Louis Armstrong, il sant'uomo, era infinitamente più corrotto di Chet: cercava la solidità, la sicurezza, se non la ricchezza. E per ottenere l'agiatezza e il successo piegò la sua arte (ancora una volta quella di un genio) alle esigenze di un mercato, crudele verso i negri, ma che una star come Louis poteva aggirare per potersi almeno evitare tutta quella triste reputazione di Zio Tom, buffone ese crabile, onta per la sua razza. Gillespie ripeterà, male, gli errori di Armstrong, diventando anche lui un clown. Ma il clown dei clown è Miles Davis che per fare quattrini diventa una star del rock e oggi rinnega cinquant'anni di musica. Vera musica. Ha saitto una discutibile autobiografia: si mette in concorrenza con Prince, diventa un collega di Madonna. Si veste come un principe dei giullari, rinuncia alla storia del suo popò lo per aderire a una moda che ne soffoca le speranze di uscire nel mondo con un'arte originale, autentica. Una volta si diceva: «Senti quello, suona come un negro». Adesso (dopo la parentesi del Betop) il jazz è di nuovo nelle mani dei bianchi: giovanotti ricchi che non hanno bisogno di guadagnarsi da viveve ma hanno dei genitori che li mandano a scuola a Boston o a New York: qualcuno diventa anche una star (ma dura poco, non è neppure il caso di fare nomi e co gnomi), gli altri tornano a casa (a Winesburg nell'Ohio, a Tori no, a Roma, a Milano, Asti, Peretola) ostentano una tecnica da strapaese come piace ai cììtici che scrivono troppo ma pensano poco e non sanno che «senza swing, ci si mette in concorrenza con Stravinski e tutta quellu gente, e allora sono dolori», come diceva più di trent'anni fa Woody Herman, uno che suonava male il clarinetto, ma lissimo il contralto, ma che la sapeva lunga. Franco Mondini Chet Baker