Napoleone in tipografia di Giulio De Benedetti

Cent'anni fa nasceva il maestro di giornalismo che fece grande «La Stampa» Cent'anni fa nasceva il maestro di giornalismo che fece grande «La Stampa» Napoleone in tipografia Giulio De Benedetti, direttore e monarca INDRO Montanelli: «Un prepotentaccio pieno di malignità ma anche di spirito, che sapeva dire il fatto suo a tutti, e non curvava la testa davanti a nessuno. E' stato, lo riconosco, il miglior direttore di questo dopoguerra». Enzo Biagi: «Certo, è stato un dittatore. Qualcuno lo chiamava Napoleone anche per il ciuffo: l'ultima parola toccava a lui. Eppure aveva immaginazione, conosceva la gente. Sapeva guardare al prestigio, senza dimenticare le edicole di Pinerolo». Eugenio Scalfari: «De Benedetti fu l'antitesi di Missiroli ed aprì la via al giornalismo moderno, al predominio delle notizie sull'ideologia e sul pregiudizio, che avevano così larga parte sui giornali dell'epoca e ancora continuano ad avere oggi». Cento anni. Il 13 ottobre 1890 nasceva ad Asti Giulio De Benedetti, prima giornalista, poi direttore per vent'anni alla Stampa dal 1948 al '68. Salì sul ponte di comando con il giornale a 96 mila copie e lo lasciò a mezzo milione, 600 mila la domenica. Una leggenda. Un uomo difficile, esigente, accentratoro, autoritario, secondo le definizioni di chi lo guardava in controluce. Un direttore geniale, creativo, indipendente, eccellente stratega per un esercito di giornalisti, linotipisti e tipografi secondo il giudizio dei più. Di De Benedetti molto si è scritto e raccontato. E le cose migliori le hanno dette quei giornalisti che dopo averne conosciuto la tirannia come direttore, lo hanno incontrato e intervistato dopo l'uscita di scena e il ritiro nella tenuta di Rivoli. A sentire quelle testimonianze e a leggere fra le righe, si resta colpiti da un impasto di emozioni opposte, sentimenti di ammirazione e di incubo che si combattono e sovrappongono. Il quadro è esemplare. Il giornalista fa visita a De Benedetti che ora è un signore tranquillo, un ex direttore lontano dal trono e dallo scettro. Incontra nel salotto di casa il conversatore, il maestro di giornalismo, senza essere assillato dall'angoscia di varcare la soglia del suo ufficio, di sottoporgli un titolo o un articolo e di ricevere una risposta sferzante. Chiacchiera con un De Benedetti rilassato e sereno per sentirsi dire che il giornalista non ha bisogno di volare a New York per farsi leggere, ma che anche da Casale Monferrato o dalla fiera del bue grasso di Carrù si possono scrivere servizi intelligenti che tutti leggono e capiscono. E mentre il cronista appunta le risposte sul taccuino, con estrema precisione, sottolineando mentalmente sfumature e pause come se fosse l'ex direttore la prima persona a leggere l'articolo, gli tornano in mente scene indimenticabili. De Benedetti che alla chiusura dell'edizione si aggira in tipografia come un grande inquisitore alla ricerca dell'errore o del malcapitato di turno da rimproverare. De Benedetti che scruta, indaga, fruga fra le bozze, interroga i ti¬ TORINO. pografi, legge le brevi e vuol sapere chi è lo sciagurato autore di quel titolino a una colonna a pagina ventitré. «Chi ha scritto questa roba? Chi l'ha passata? E' un asino. Venga nel mio ufficio». Tutti hanno paura di lui. Non c'è inviato speciale, firma autorevole o capo che, chiamato dal direttore, non abbia un fremito di panico. Del resto si è scontrato più volte, anche aspramente, con Paolo Monelli, Arrigo Benedetti, Enzo Biagi, Enrico Emanuelli, Vittorio Gorresio, perfino con Guido Piovene, che pure gli erano amici. E c'è chi ricorda che senza batter ciglio, in tipografia, tagliò di brutto un intero periodo da un elzeviro di Benedetto Croce. Meglio De Benedetti come interlocutore per un'intervista che come direttore. Anche se, e sono in molti a ricordarlo, era tanto pronto al rimprovero quanto prodigo di lodi. Il lavoro ben fatto gli piaceva ed era sempre disposto a riconoscerlo. «Se il servizio funzionava - ricorda Francesco Rosso - giungeva tempestiva la lode telegrafica attraverso Fausto Frittitta, l'affezionatissimo. Tutta La Stampa doveva muoversi come un congegno perfetto, quale egli lo aveva creato con la fatica di anni, la sagacia nello scegliere i collaboratori». C'era molto di «piemontese» in questo personaggio, che se trasformò il suo giornale in «una caserma savoiarda» (la definizione ò di Enzo Bettiza), gli sep- pe dare identità e nerbo, fu sempre estraneo al Palazzo e alla sua cultura, cercò strade nuove, originali, diffidando dei politici e avendo poca simpatia per gli intellettuali. Quando il filosofo Nicola Abbagnano, nel '64, gli consegnò il primo articolo, De Benedetti ebbe quasi un moto di stizza. Lo afferrò e cominciò a leggerlo in quel suo ufficio ordinato e sempre in penombra, dopo aver lanciato al filosofo l'ennesima occhiata fulminante. «Ero quasi intimidito - raccontava Abbagnano - e cercavo di immaginare le sue reazioni. Alla fine alzò gli occhi e mi disse, tra i denti: anche un filosofo, dunque, riesce a farsi capire...». Aveva inventato Specchio dei tempi, la rubrica in cronaca che anni più tardi sarebbe stata definita da qualche sociologo o giornalista con smanie intellettuali «lo specchio della Torino perbenista e codina». Ma più per invidia che per altro: molti giornali cercarono di imitare Specchio dei tempi ma nessuno lo eguagliò. «Tutti i giorni alle 15 - ricorda Piero Martinotti - il direttore lasciava l'ufficio di via Roma con il pacco delle lettere. Erano voci che gli giungevano da ogni angolo d'Italia e dall'estero, povera gente che in rozzo italiano cercava di esprimere la propria pena, protestava. Passeggiando fra i boschi di Rivoli De Benedetti ripensava a tutte le lettere che aveva letto attentamente e sceglieva quelle che più gli avevano toccato il cuore e la fantasia. Meditava a lungo quei titoli secchi come frustate, che potevano essere commento, sfida o approvazione». Si ritirò dal giornalismo nel dicembre '68, dieci anni prima della morte. Ma per chi era rimasto al giornale, continuò ad essere un incubo. Riceveva tutte le mattine il pacco dei quotidiani, leggeva attentamente, accanitamente: quel titolo a quattro colonne di taglio, e perché non di spalla? Quel servizio di cronaca: pasticciato, confuso, perché il nome della vittima è a metà del pezzo e non in testa? De Benedetti fremeva sulla poltrona: quasi quasi afferro il telefono e gliene canto quattro. Poi, di tanto in tanto, telefonava sul serio ai vecchi collaboratori: «Hai fatto un buon pezzo, semplice, chiaro. Però quell'ultima frase, scusa, sai, ma non l'ho capita». Carlo Moriondo ricorda uno degli ultimi colloqui: «Non aveva rimpianti. Ho fatto bene ad andarmene, diceva. Non sono più i nostri tempi, non potrei più fare quello che ho fatto». La sua epoca era finita e De Benedetti non ebbe il tempo di intravedere le tendenze del giornalismo di questi anni: l'informazione spettacolo, il Palazzo ad ogni costo, i fatti piegati alle idee, la politica spiata dal buco della serratura, il quotidiano di successo che diventa moda e status symbol per gli intelligenti. Sì, il suo tempo era proprio finito. Giulio De Benedetti negli ultimi anni di direzione Giulio De Benedetti con un gruppo di studenti in visita a «La Stampa» Torino: a quarant'anni dalla morte, un convegno sullo scrittore Mauro Anselmo nell'istituto in cui fu al

Luoghi citati: Carrù, Casale Monferrato, Italia, New York, Pinerolo, Rivoli, Torino