Le ombre cinesi contro Deng di Fernando Mezzetti

Il leader vuol salvare le riforme economiche dalle grinfie dei conservatori Il leader vuol salvare le riforme economiche dalle grinfie dei conservatori le ombre cinesi contro Deng Resa dei conti dopo le Olimpiadi asiatiche il C TOKYO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Finite le lotte negli stadi con la chiusura ieri dei Giochi Asiatici, riprendono a Pechino quelle nel chiuso della Città Proibita per il potere e il destino del Paese. Un plenum del comitato centrale del partito sulla politica economica, che originariamente sembra fosse stato fissato per questo mese, pare sia stato rinviato a fine novembre: segno che non tutto è ancora deciso, che le fazioni si stanno ancora sbranando. Si tratta di decidere se e quanto proseguire sulle riforme, sullo sviluppo delle regioni costiere come locomotive, o se arroccarsi e ritirarsi nella gabbia di una pianificazione più ferma dopo le aperture, incatenare le aree avanzate all'arretratezza dell'interno, ricostituire una nuova muraglia a difesa dell'ultimo marxismo-leninismo. In tribuna d'onore, in apertura il 22 settembre e ieri in chiusura, si sono presentati ad assaporare l'effimero trionfo organizzativo il capo del partito Jiang Zemin e il premier Li Peng, celebrando la squadra nazionale che ha dominato le gare, portando a casa 183 medaglie d'oro su 310, seguita a lunga distanza dalla Corea del Sud con 54. Un successo che ha scosso l'apatia iniziale della gente, bombardata prima delle gare per la loro riuscita. I giornali hanno sbandierato Coreografia di studenti cinesi durante 1'«entusiastico» impegno delle masse nell'eseguire le direttive per presentare il miglior aspetto della capitale. La campagna per eliminare dalla città mosche, zanzare e scarafaggi pare sia stata un trionfo. Tutti avrebbero superato l'obiettivo minimo di far fuori sei mosche o zanzare al giorno nei cessi pubblici (centinaia di migliaia di abitanti non lo hanno privato). Chiusi i Giochi un sospiro lo tira non solo la gente, ma anche i la ce dirigenti: l'imponente apparato di sicurezza ha funzionato, nessun incidente ha turbato lo svolgimento, e sugli spalti le folle, cui i biglietti sono stati dati con selezione politica, non hanno approfittato di questi grandi assembramenti legali per trasformarli in manifestazioni. Il fallito dirottamento di Canton con 127 morti, segnale di malessere e protesta, è rimasto ignorato. Nei veri giochi, senza pubblico, che riprenderanno ora, Li rimonia inaugurale dei Giochi asiatici Peng e Jiang Zemin resteranno però in secondo piano davanti ai veri protagonisti: da una parte un vegliardo come Deng Xiaoping che, assuntosi la responsabilità della Tienanmen, sta da allora conducendo la sua ultima battaglia per salvare la sua politica di riforme economiche pur nella stretta politica; dall'altra le fegatose canizie che egli era riuscito a mettere da parte, come Chen Yun e Peng Zhen, alle quali dovette ricorrere nella crisi e che da allora non hanno più mollato il campo, opposti all'iniziativa privata e fautori di una più severa stretta politica. La tacita tregua per le Olimpiadi asiatiche svanisce con la loro fine. Intanto è di nuovo già scomparsa nel nulla un'ombra sapientemene evocata alla vigilia dei giochi: Zhao Ziyang. Agli inizi di settembre l'ex segretario del partito, di cui nulla di preciso si sa da quando è stato fatto fuori, è apparso sui campi del Golf Club internazionale. L'ipotesi è che egli sia stato costretto a farsi vedere giocare a golf, sia pure una volta sola, per dare al mondo l'immagine di una Cina «normale», in cui si può essere estromessi dal potere e fare il tranquillo pensionato dedito ad aristocratici sport. Prima di far fuori Bucharin, Stalin lo obbligò a invitare al Cremlino dei corrispondenti stranieri intrattenendoli amabilmente. Zhao non finirà fisicamente come Bucharin per più motivi. Deng ha cambiato volto e sostanza di una dirigenza sanguinaria come quella dell'età maoista, in cui alla disgrazia politica spesso si accompagnava la fine fisica. Due figli di Zhao sono riusciti a fuggire dalla Cina: con tutto ciò che sanno, sono la sua assicurazione sulla vita. Infine l'ala riformista, cresciuta con lui e con Deng, non è scomparsa. E dovrebbe essere abbastanza forte se malgrado tutto egli non ha fatto la rituale autocritica e se l'inchiesta a suo carico non è ancora terminata. Ciò non vuol dire che possa tornare. Nella sua ultima complessa battaglia Deng ha vinto per ora quella esterna, mostrando duttilità nei rapporti internazionali malgrado i suoi avversari lancino anatemi da guerra fredda. Isolata per la Tienanmen, fuori gioco per le intese Unione Sovietica-Stati Uniti che hanno eliminato la triangolazione cinese, Pechino è tornata all'alto profilo per il Golfo, grazie al suo diritto di veto all'Onu, dove si è schierata con l'Occidente sia pure con sfumature diverse. Con Washington aveva già eliminato il maggior attrito permettendo l'uscita di Fang Lizhi dal Paese. La Banca Mondiale ha ripreso ora l'erogazione dei prestiti, la Cee si appresta a riprendere i rapporti. Sul piano interno, anche se Deng riuscirà a imporre la propria linea, si avrà il proseguimento delle riforme economiche, ma poche illusioni sono da coltivare sull'aspetto politico. Deng è un riformatore che, senza teorizzarlo, pensa alla Nep di Lenin: che dette spazio all'iniziativa privata, ma fondò la Ceka. Maggior controllo poliziesco allentando quello economico. Malgrado tutto ciò, egli rimane l'unica speranza perfino per i protagonisti della Tiananmen. «Se non ci fosse Deng ora sarebbe molto peggio», mi ha bisbigliato dieci giorni fa a Pechino uno di loro, tra i più noti, che ha fatto oltre un anno di galera. E' tutta qui la tragedia dell'uomo e del Paese. Fernando Mezzetti pre-elettorale