Castellitto cane sciolto di Donata Gianeri

Castellitto, cane sciolto Intervista con l'attore del momento, reduce dal trionfo di Montreal e pronto per il terzo serial tv Castellitto, cane sciolto «Il successo? Una gran fortuna» Dice che il boom di attore cinematografico è dovuto, più che altro, a una gran fortuna. Ma non c'è ombra di convinzione, nella sua voce. Dice che se lui è arrivato dove è arrivato è semplicemente perché non si adagia mai, ama il rischio. Ma anche, aggiunge, perché i registi hanno trovato in lui la faccia giusta, la «faccia del momento». Quella di Sergio Castellitto è una faccia molto normale, né bella, né bratta: capace però di trasformarsi sullo schermo in mille facce diverse, passando dalla soavità alla perfidia, dal sorriso alla lacrima. Il suo ultimo successo s'intitola Alberto-Express, film girato a Parigi con la regia di Arthur Joffé e premiato al Festival di Montreal. «Un film che amo e mi ha coinvolto moltissimo: è la storia di un giovane italiano che vive in Francia e deve tornare a Roma per saldare un insolito debito col vecchio padre (Manfredi): cioè rimborsargli tutto quanto ha speso per lui dal momento della nascita a quando, sedicenne, se n'è andato di casa. Il film dura Yéspace d'une nuit, trascorsa sul treno Parigi-Roma, che è poi il treno della vita, sul quale il giovane si trova a ripercorrere gli anni a ritroso, incontrando fantasmi che escono dal suo passato. E' un film capace di risvegliare grandi emozioni anche se tutto viene raccontato in maniera molto leggera e divertente. Dopodiché, ha girato Una fredda mattina di maggio, sul caso Tobagi: film altamente drammatico. Da un estremo all'altro. «Il protagonista si chiama in realtà Ruggero Manni e il film non vuol raccontare un fatto di cronaca, bensì descrivere un certo periodo della storia italiana attraverso un evento terribile, come l'assassinio di un giornalista. Un fatto non abbastanza antico da essere storicizzato e neppure così vicino per essere, ancora, polemico; ma sospeso a metà, come in una sorta di Purgatorio. Eppure temo che quando il film uscirà, a novembre, provocherà nuove reazioni incresciose: qualcuno che avrebbe il dovere di starsene nell'ombra si è già fatto vivo per chiederne il ritiro. E' inaudito». Qual è stato l'apriti Sesamo che le ha spalancato le porte del cinema, meta proibita per la maggioranza degli attori di teatro italiani? «Direi che è accaduto tutto molto per caso: dopo aver fatto tanto teatro, avevo paura di fossilizzarmi, di chiudermi, appunto, nel cliché dell'attore teatrale. Mentre morivo dalla voglia di provare altri mezzi: così ho deciso di saltare il fosso». E come si fa a saltare il fosso? «Si rimane disoccupati per un po' di tempo. Si aspetta. Io sei anni fa decisi di smettere col teatro e di vedere cosa sarebbe accaduto: un rischio, certo. Ma ac¬ cadde quasi subito che Enzo Muzii mi offrisse la parte di protagonista ne La singolare avventura di Francesco Maria, per la televisione. Fu il via: da quel momento non mi sono più fermato». Tanto successo la esalta? «Trovo che un attore deve imparare a minimizzare il proprio lavoro, che è già di per sé un lavoro privilegiato, sia dal punto di vista economico che da quello emotivo: questo per evitare appunto l'autoesaltazione, così facile nel nostro mestiere. Io credo che il mio successo sia legato, più che altro, alla serietà delle scelte molto precise e mai spinte dall'interesse. Ho cioè sempre cercato di scegliere personaggi agli antipodi l'uno dall'altro, anche se questo poteva nuocermi, nella memoria del pubblico. Ma risponde a una mia esigenza personale: se mi dicono che sono un tenero, mi vien subito voglia di interpretare un assassino. Inoltre, penso che un attore debba fare un film soltanto quando sente la necessità di farlo, cioè se ha qualcosa da dire: nel senso che in termini di impegno ha il dovere di allinearsi, di partecipale». A film alterni, magari: lei dopo quello impegnatissimo su Tobagi ne sta girando uno molto meno impegnativo con Verdone. «E Ornella Muti: Stasera in casa di Alice. Ma il lato esaltante di questo nostro mestiere consiste proprio nel poter passare con estrema disinvoltura da un genere all'altro. Infatti, subito dopo ho in progetto un film tutto diverso con Claudio Calligari regista di realtà estremamente poetiche: la storia di un prete che va a lavorare nell'hinterland napoletano». Lei non si ferma mai, lavora à bout de soufflé. «Non posso fermarmi, ora: è il mio momento, devo approfittarne. D'altronde, mi arrivano soltanto ottime proposte. Difficile dir di no. E sono equamente diviso tra cinema e televisione: il 14 gennaio andrà in onda la seconda serie de II cane sciolto e inizieremo la lavorazione della terza. Paradossalmente, oggi, mi trovo di fronte al problema opposto: rischiar di cadere nel cliché di attore cinematografico. E sto meditando il ritorno al teatro». Il teatro, le manca? «Moltissimo: il teatro è nutrimento fondamentale per un attore. Ma è anche un fatto atletico: nel senso che il teatro è esercizio fisico e ti stanca moltissimo laddove il cinema, invece, ti impigrisce». Lei è molto ambizioso? «Nei giusti valori sindacali: quella dose di ambizione che serve a non farsi prevaricare. Diciamo piuttosto che sono molto libero: e vorrei riuscire a rimanere per sempre un cane sciolto. Donata Gianeri Sergio Castellitto. «Sono arrivato perché non mi adagio mai, perché amo il rischio»

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