Carlo Gesualdo dannato a cantare l'amore di Sandro Cappelletto

Carlo Gesualdo dannato a cantare l'amore Quattro secoli fa il principe di Venosa uccise la bellissima moglie: il suo rimorso si mutò in musica Carlo Gesualdo dannato a cantare l'amore I sublimi madrigali dell'amico di Tasso SI L castello è lì, sghembo e I mutilato, alto sulle colliI ne e sul paese. Non si può I visitare e dei torrenti di gj denaro regalati a chi doveva ricostruire, dopo il terremoto, l'Irpinia, neppure una goccia è andata a far rivivere quel rudere. Oggi ancora più indifeso di quando lo vide Igor Stravinskij, che volle arrampicarsi fino alla rocca per rendere omaggio a Carlo Gesualdo di Venosa, pianeta senza satelliti nell'universo della musica. Principe nobilissimo e assassino derelitto, che un mattino di quattro secoli fa, nel 1590, galoppò da Napoli a qui, dove era il suo feudo, iniziando una fuga destinata a non placarsi più. All'alba, aveva ucciso di pugnale Maria d'Avalos e Fabrizio Carafa, la moglie e il suo amante. Lei di bellezza senza rivali, lui lo chiamavano «l'angelo». Carlo sapeva, da almeno due anni. Ma sapevano tutti, Maria non si preoccupava di nascondere. A ventitré anni era entrata a palazzo Gesualdo, in largo San Domenico Maggiore, a Napoli, per le sue terze nozze. Prima, era rimasta due volte vedova. Una nutrice gitana le aveva insegnato melodie d'amore che nessun'altra donna, in città, conosceva. Mentre si faceva pettinare e vestire per la notte da Silvia e Laura, le sue ancelle, Maria le intonava, lasciando socchiusa la porta della camera matrimoniale. Soltanto una scala separava la stanza dal salone, ma poche volte Carlo aveva risposto al richiamo. Non sapeva donarsi, non voleva perderla e nel furore dell'indecisione risolveva di sfinirsi nelle foreste, inseguendo cinghiali. Partiva dopo mezzanotte, per essere all'alba nel fitto del bosco, uccidere e ritornare a palazzo prima che il caldo diventasse opprimente. E dopo mezzanotte in quella camera saliva Fabrizio. Porte e lucchetti erano già aperti, Silvia e Laura restavano di vedetta agli amanti e accudivano Emmanuele, il bambino di Maria. Ma chi era suo padre? Non solo la caccia consolava il principe. Zio materno era Carlo Borromeo e lettere di devozione, suppliche per una benedizione ricorrono frequenti nel suo epistolario. Poi, quando San Carlo morì, il bisogno diventò quello di possedere sue reliquie, vere o fasulle, che il principe faceva arrivare da Milano, pagando ogni prezzo. Poi, la musica. Nel 1590, a trent'anni, non ne ha ancora pubblicata, ma il palazzo di Napoli ospita poeti e musicisti e tra i più assidui vi è il Tasso. Per il suo generoso ospite, scriverà quaranta testi di madrigali, di cui una decina verranno trascritti in musica. Il piacere del dolore, la tensione e il rifiuto d'amore, il gelo dell'anima e il fuoco del volto, la mano adorata «ch'avventa nel cor fiammelle e strali»: le coppie tipiche degli opposti e complementari sentimenti della poetica manieristica trovano rispondenza prontissima nella sensibilità di Gesualdo. Nei suoi madrigali, spesso sono le voci di soprano a portare il canto della lontananza e del suo pianto, una nostalgia evocata pianissimo. Talvolta è il principe a cantarli, accompagnandosi all'arciliuto. Ma cacciando e facendo musica, quanto a lungo poteva dimenticare Maria? Per lui, decise lo zio Giulio. Sembra fosse invaghito della bellissima, e sempre respinto. E iniziò a tormentare il nipote, accusandolo di spregiare l'onore della casata, di subire il ridicolo: Carlo deve uccidere Maria e Fabrizio, senza temere nulla per quella legittima punizione, termine di uno scandalo troppo lungo. Quando il veleno è stato instillato a sufficienza, è lui a preparare la trappola. Carlo fingerà di partire per la caccia e annuncerà con buon anticipo la battuta di quella notte, lasciando a Maria tutto il tempo di avvertire «l'angelo». Partono davvero i cavalieri, seguendo la strada di Astrimi; ma non arrivano alla foresta, improvviso giunge l'ordine del dietrofront. Si torna a palazzo, sono le quattro del mattino quando un servo schiude il portone a Carlo, a Giulio, agli altri. Porte e lucchetti sono aperti, il principe sale le scale, entra nella stanza, colpisce. Il silenzio di due anni ha covato una rabbia feroce, che ora si sfoga sui due corpi, soprattutto contro Fabrizio. Poi, Gesualdo va personalmente a informare il viceré Miranda. Il governatore spagnolo non ha nulla da rimproverare all'assassino. Tuttavia gli consiglia la fuga, i fratelli Carafa hanno cavalli veloci per la loro vendetta. Il principe lascia Napoli, mentre a palazzo «li corpi dei miseri amanti stettero esposti tutta la mattina seguente in mezzo delle scale et a vedere tale spettacolo vi corse tutta la città», come precisa un manoscritto anonimo. Che non tace l'episodio necrofilo, prova mira¬ bolante della bellezza di lei: «Si dice che stando detti cavalieri nel salone, un frate di San Domenico, terziario, avesse usato con Donna Maria, quantunque morta». E quella morte offrirà occasioni inesauribili, unendo nel ricordo l'arte dei più colti poeti della scuola napoletana — Marino, Pignatelli, Capaccio, Cortese — e i racconti dei cantastorie agli incroci dei quartieri. «In morte di due nobilissimi amanti» è il sonetto d'occasione composto dal Tasso. L'antica amicizia per Carlo Gesualdo è meno forte del compianto per le vittime dell'«orribil caso»: «Piangi, Napoli mesta, in bruno ammanto, / Di beltà, di virtù l'oscuro occaso, / E in lutto l'armonia rivolga il canto». Dura a lungo il lutto del principe. Ogni mattina nel convento femminile di Gesualdo, sotto il castello, si celebra una messa, offerta da lui alla memoria di Maria. Anche la raccolta delle reliquie del santo zio diventa, nel tempo, ossessiva, un viatico per espiare. Protetto da una scorta per prevenire la vendetta dei Carafa, Carlo vive rinchiuso per quattro anni. Nessun poeta nel castello, nessun cenacolo di artisti. Nella solitudine, il musicista diventa letterato, scrive da sé i versi dei madrigali che musica. Il gioco manierista è meno scontato, le armonie si esasperano e dilatano, il canto ne segue le asprezze, come gli improvvisi abbandoni. «Musicista senza padri e senza figli», è stato definito Gesualdo: lo riscoprirà il Novecento, attento ai contrasti violenti dei suoi accordi, ai colori esasperati o alle tinte così tenui delle voci. «Monumentum ad Carlum Gesualdum», così Stravinskij intitola il brano che gli dedica nel 1960, nel quarto centenario della nascita del principe. Dopo il delitto, ancora una volta è la famiglia a decidere per lui. Da Ferrara giunge la proposta del duca Alfonso II d'Este che offre in moglie la figlia Eleonora. L'intento del duca è chiaro: lo Stato della chiesa minaccia i suoi territori, un matrimonio con una famiglia legata ai Borromeo, essa stessa titolare di un cardinalato, saprà offrire utili ripari. Carlo accetta subito. Non gli importa nulla di quella sposa sfiorita, di dieci anni più vecchia, poco desiderata, molto lontana dal fascino di Maria. Ma Ferrara sì: quella corte è un santuario musicale ambito da tutti, in Italia e in Europa; nelle sue stanze segrete si celebrano rituali della musica reservata, si può ascoltare un coro femminile senza eguali, incontrare i migliori musicisti fiamminghi, rivedere il Tasso. A Ferrara, Carlo giunge con ur. bagaglio di due libri di madrigali, che verranno stampati sotto il nome di un musicista del seguito: ai nobili non si addiceva trasformare il diletto per la musica in professione, in lavoro. Altri due libri sono pubblicati nei due anni successivi, sempre ricorrendo allo stesso stratagemma. Ma quando escono, Gesualdo non è più a Ferrara. Ha ascoltato, ha imparato, appena si è sentito pronto è ritornato al castello. Eleonora è con lui, ma la sua presenza serve soltanto a esasperare il ricordo di Maria. Le notti sono un tormento, nelle stanze si rincorrono urla e lamenti, misteriosi fino a quando Eleonora non scopre un servo mentre frusta il principe. Il rito di punizione si compie prima che, ebbro di dolore, Carlo esca nei boschi a cacciare. Poi, nel castello giunge una macchina per stampare musica. E Carlo non avrà più motivi per uscire dalla sua cella: le messe per Maria, il corpo piagato, le reliquie, la carta da musica e i caratteri per stamparla, il suo mondo è concluso lì dentro. Eleonora lo lascia, salvandosi. Appena diventa ragazzo, lo lascia anche Emmanuele, il figlio mai amato. Un prete, un copista, è l'unico compagno. Trascorrono quindici anni prima che vengano stampati il Quinto e il Sesto libro dei madrigali, gli ultimi e questa volta firmati dal loro autore. I testi diventano più brevi, tutti rigorosamente anonimi, quasi certamente opera di Carlo. Ma è la musica a trasformare quelle immagini in poesia. He scritto Nino Pirotta: «Essa ha il compito di dire ciò che è indicibile- a parole, di esprimere coi rivolgimenti cromatici il torcersi dell'anima nel dolore, con i salti melodici violenti e inconsueti la sfida del sarcasmo e della ribellione, il fervore disperato della speranza o il dilatarsi panico della personalità nella gioia». Solo la musica restituisce la vita a quel mistico profano. Ma la sua esistenza è ormai un sentiero dove la più fedele compagna sembra essere la morte: muore il piccolo Alfonsino, il gracile figlio avuto da Eleonora, muore giovanissimo anche Emmanuele. Gesualdo non avrà discendenti. Stampati gli ultimi madrigali, tra le mura del castello, in un orizzonte di colline aride, una sola attesa è possibile, invoncando San Carlo perché sappia offrirgli il riposo mai trovato. «La morte è il privilegio di chi è sfinito», ha detto un grande compositore contemporaneo, Edgar Varese. Sandro Cappelletto n alto, Lorenzo Lippi: «La Musica» (particolare). Qui accanto, il profilo di San Carlo Borromeo, zio di Carlo Gesualdo da Venosa. Sotto il titolo, un volto di Madonna, dipinto da Jean Fouquet