«Saraceni» tra le vigne

«Saraceni» tra le vigne Le Langhe sono una seconda patria per molti marocchini «Saraceni» tra le vigne Alcuni hanno messo su casa e lavorano nelle cascine come contadini Oltre ad imparare il dialetto c'è anche chi gioca a pallone elastico ALBA. Se c'è un posto dove i «marocchiiii» si sono perfettamente inseriti e dove si trovano a loro agio, questo posto è la Langa, in tutta la sua estensione, da Canelli a Montezemolo passando per Alba capitale. Langa è termine affettivo per indicare le geografiche Langhe, una denominazione di origine insicura che permette a dieci etimologisti di dire, ciascuno, la propria opinione, risalendo al latino classico e privilegiando il gergo popolare: ma l'antropologia è più pratica dell'etimologia, o almeno consente dei risultati più sicuri e io credo che nelle Langhe i marocchini si trovino bene perché qui si incontrano con lo stesso sangue saraceno che alimenta la gente e le dà, assieme alle doti antiche della perseveranza e dell'intraprendenza, un estro talora prossimo a essere bizzarro. Prima che si chiamassero «vucumprà», alcuni di loro giunsero ad Alba e vi si acquartierarono. «Amigo», dicevano ai cascinieri quando, inerpicandosi fra sentieri, giungevano nelle aie, bussavano alle portine e le donne si trovavano di fronte a baffetti e ricciolini a incorniciare occhi neri e ridenti, denti bianchissimi schiusi su mesto sorriso. L'istinto delle contadine era di chiudergli l'uscio in faccia, ma la curiosità le spingeva a perlustrare fra la lingeria e i tappeti che quelli si portavano in spalla come un basto, una soma: se gli si fosse allungato un calcio, essi non avrebbero nemmeno guaito, ritirandosi in buon ordine, inseguiti dai latrati dei cani alla catena. I marocchini delle Langhe fecero presto a passarsi la parola: «Su quel bricco, quattro pedalini e una maglietta te li comperano sempre. Nella cascina dei Pendaglioni non comperano nulla, ma ti passano una minestra che sa di bollito e qualche volta anche il bollito». II primo che mise su casa ad Alba, e che adesso parla il dialetto meglio dei ragazzi del posto i quali lo hanno parzialmente smesso, fu per sua e per generale fortuna un uomo intelligente. Consapevole che, se ti trasferisci in un sito, prima ti integri nel suo modo di vivere e meglio vivi, invece di isolarsi nelle patrie memorie si buttò a farsene delle nuove. Egli è ora un decano, possiede una dignitosa bancarella di orologi e occhiali da sole e con essa fa dei buoni af- fari in Alba e nelle sagre di collina. A lui se ne sono aggiunti degli altri, quanti non saprei dal momento che, credo, nemmeno il sindaco Demaria ha ritenuto di conoscerli, evitando un'operazione di dubbia utilità, mentre sarebbe più interessante la conta dei miliardari indigeni che, se la si facesse, le statistiche Istat andrebbero a farsi benedire venendosi a trovare, le Langhe, di gran lunga al primo posto nel benessere non solo economico d'Italia. Intendiamoci bene: nulla da spartire con i patrimoni resi pubblci dall'americana rivista «Fortune» con il Ferrerò in bella vista e i Miraglio più inguattati, tuttavia patrimoni impensabili soltanto una generazione addietro. E «amigo» continua a essere l'infallibile nome dei marocchini delle Langhe, presto convertitisi agli insaccati e al vino perché mi si deve spiegare come si faccia a lavorare nelle vigne senza metter mano a un salame e a una bottiglia di Dolcetto. Infatti nelle vigne essi lavorano e si direbbe che non abbiano mai fatto altro sulle sponde settentrionali e occidentali dell'Africa, perché ormai sanno di potatura, di legatura delle viti, di sfoltimento dei tralci, e dall'ebollizione di un mosto arrischiano a gradarlo con il naso, verificando poi con giusti bicchieri la ragionevolezza dell'intuito. Il cavaliere Armando Piazzo, a San Rocco Seno d'Elvio dove nacque l'effimero imperatore romano Pertinace, dovendo vedersela con centotrenta giornate di vigna che sono una ricchezza da far venire i sudori in ogni senso, di marocchini ne ha assoldati quattro e gli è prodigo anche di complimenti: «Bravo, amigo, t'hai amprendì ben», hai imparato bene, e loro gli rispondono: «T'hai propri rason, amigo», hai proprio ragione, e pensano che, finito il lavoro, qualche avventura galante in giro per le Langhe mica gli è negata, anzi, pare che talora sia addirittura bramata. Nessuna sorpresa dunque per la loro corretta integrazione. Se è vero, e agli storici non bisogna dar contro, che noi langhetti abbiamo tracce di sangue levantino nelle vene, stai a vedere che quelli vengono a suggere semplicemente alle antiche radici delle loro scorrerie quando, giungendo dal mare, ci costrinsero a rifugiarci sui bricchi, sull'alto delle colline. Il figlio di un marocchino, a Diano d'Alba, sta imparando a giocare al pallone elastico, perciò non è da escludere che tra gli eredi di Manzo, Balestra, Bertola, Berruti, Gioetti, Aicardi e compagni, questo grandissimo sport contadino possa annoverare fiere leve mediterranee. Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che, proprio in questi giorni che viviamo una serie di manifestazioni per i quarant'anni della morte di Cesare Pavese, anche in ciò lo si voglia ridiscutere: nella trasformazione di un mondo che egli riteneva immutabile, intangibile, riconoscibile. Sarebbe una congettura errata. Le Langhe sono sempre se stesse, sempre più belle, sempre più svizzere. Infatti, tanto gli svizzeri quanto i vucumprà, hanno qui imparato, gli uni ad alzare un tantino la voce per farsi capire, gli altri ad abbassarla per non turbare l'armonia di una natura sostanzialmente rispettata. Nella libera repubblica delle Langhe svetta la bandiera di un costume che aggrega senza togliere un'oncia della propria identità. Franco Piccinelli Felice Bertola in azione

Luoghi citati: Africa, Alba, Canelli, Italia, San Rocco Seno D'elvio