Tra Usa e Hanoi l'ombra di Pol Pot

Tra Usa e Hanoi l'ombra di Pol Pot SUD EST ASIATICO Dopo la richiesta americana di togliere il seggio Onu della guerriglia Tra Usa e Hanoi l'ombra di Pol Pot Senza i khmer rossi nessuna pace in Cambogia TOKYO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Il cambiamento americano sulla Cambogia è clamoroso ma non risolve granché la situazione. Nelle giungle si continua a sparare e a morire e sul piano diplomatico la situazione si fa più complessa. Per la prima volta da tempo, alle Nazioni Unite si profila uno show-down fra Stati Uniti e Cina sul mantenimento del seggio per la coalizione antivietnamita su cui si era finora avuta una larga convergenza tra l'Occidente tutto e i Paesi non allineati. Mentre Pechino isolata ha già annunciato che proseguirà gli aiuti ai khmer rossi, i sei Paesi dell'«Asean», finora i più fermi verso Hanoi, non nascondono perplessità sull'iniziativa di Washington. Baker s'incontrerà con i loro ministri degli Esteri il 25 prossimo. Inserito nel vento delle novità e di intese con Gorbaciov, il cambiamento di Washington risponde a esigenze morali di non voler più aver a che fare con sanguinari come i khmer rossi; placa i malumori del Congresso ricreando la «bipartisan policy» cui Bush e Baker tengono moltissimo su temi internazionali; ma apre molte questioni. Come faranno, in sede Onu, gli Stati Uniti, sulla questione del seggio cambogiano che il Vietnam certamente metterà in discussione a settembre, a distinguere tra forze di guerriglia anticomuniste e khmer rossi? Da oltre dieci anni quel seggio è riconosciuto per la coalizione antivietnamita, nella quale come in un nido di vipere accomunate dall'opposizione ad Hanoi, anticomunisti come San Sann e navigatori come Sihanouk sono convissuti con le tigri khmer, mantenendo uno Stato internazionale. Duole dirlo, ma a che titolo avranno domani voce l'uno e l'altro se scissi dai khmer dovessero perdere il seggio? Il rischio è che in questo caso con l'acqua sporca si finisca col buttar via il bambino. Non stupisce la stizzita reazione di Sihanouk che da Pyongyang, dove passa gran parte dell'anno ospite d'un satrapo come Kim II Sung, parla di «grave ingiustizia». Ciò malgrado egli stesso agli inizi di giugno a Tokyo si fosse distanziato dai khmer rossi, firmando con Hun Sen, capo del regime installato a Phnom Pen, un cessate-il-fuoco che molti vedevano anche come inizio di un futuro governo di coalizione. La realtà è che la mossa americana lo ha spiazzato e indebolito, diminuendo la sua capacità di pressione sugli uni e sugli altri. L'apertura del dialogo Washington-Hanoi, sia pure limitato al solo problema cambogiano, viene salutata con favore da Londra soprattutto in relazione al problema dei profughi che a migliaia affollano i campi di Hong Kong. E certo contribuisce a una diminuzione della tensione nell'aria. Ma non risolve appunto il problema cambogiano per il semplice mo¬ tivo che su di esso la possibilità di influenza delle grandi potenze è limitata. L'opinione pubblica internazionale, giustamente, non vuole un ritorno al potere dei khmer rossi, o una loro sostanziale partecipazione ad esso. Ma che cosa fare allora di queste tigri? Lasciarle nella giungla o cercare di controllarle? Sono il gruppo militarmente più forte, controllano ad armi spianate e con un regime militare i centomila profughi nei campi al confine con la Thailandia. Sono e saranno costantemente armati dalla Cina, e hanno costituito forti riserve di armamenti e munizioni. Sihanouk e San Sann hanno il prestigio internazionale di cui manca Hun Sen, ma sono privi di forza sul campo. E il regime di Hun Sen gode indubbiamente di largo sostegno interno, testimoniato anche dalla distribuzione di armi per una milizia popolare contro i khmer rossi. Ma questi ultimi restano pur sempre i più forti. Non è pensabile una soluzione ignorandoli. Tutto ciò spiega le caute reazioni dei Paesi della regione. Per il Giappone il primo ministro Kaifu si dichiara soddisfatto, asserendo che l'iniziativa americana favorisce una soluzione pacifica. Ma sottolinea che essa non avrà alcun impatto su Tokyo, che sostiene la coalizione di Sihanouk inclusi i khmer rossi, asserendo l'opportunità di «approcci diversi da Paesi diversi». L'Indonesia, che pure all'interno dell'Asean è stata la prima ad aprire ad Hanoi, organizzando più incontri tra le fazioni, esprime «dubbi che la decisione di Washington possa portare a soluzioni globali». Il viceministro degli Esteri sovietico, Rogaciov, gran coordinatore del Cremlino verso il Sud-Est asiatico e Pechino, manifesta ampia soddisfazione: ma certo più per quella che è un'ulteriore intesa con Washington su un'altra area del mondo che per il suo risultato pratico, mentre l'irrigidimento di Pechino indica anche sospettosità verso la concordanza delle due superpotenze su una regione che la riguarda da vicino. Perché la posizione della Cina cambi sulla Cambogia sarà necessario aspettare, se verrà, una perestrojka cinese. Ma anche allora non basterà un'eventuale intesa a cinque. A smettere di scannarsi devono essere i gruppi cambogiani una volta che le diplomazie avranno smesso di confrontarsi. Le intese tra grandi potenze, qual è il dialogo con Hanoi passato certamente per il Cremlino, nelle paludi del Sud-Est asiatico si fermano al limitare della giungla dove per ora purtroppo sono in ballo i destini della Cambogia. Il dato più positivo è che con la svolta americana l'Indocina cessa di essere terreno di confronto fra le grandi potenze. Vi si continuerà a morire, ma sempre minore è il rischio che essa diventi i Balcani dell'Asia. i Fernando Mozzetti Un commando di khmer rossi in Cambogia