«Stragi senza verità, colpa di Roma»

«Stragi senza verità, colpa di Roma» Si scatena la polemica dopo la sentenza di Bologna, troppi i depistaggi nelle indagini «Stragi senza verità, colpa di Roma» I giudici: il governo non controlla i servizi segreti ROMA. Il terrorismo nero, le stragi, le collusioni, i servizi segreti deviati. Anni e anni di indagini, migliaia di fogli di carta per riempire sterminati fascicoli. Tutto inutile. O, quantomeno, senza risultati concreti. Dal 1969, dalla strage di piazza Fontana, non c'è stata inchiesta sugli attentati che si sia conclusa con una sentenza di colpevolezza per gli autori. Colpa dei giudici, «incapaci» di risolvere i misteri? Colpa delle protezioni offerte dall'alto a protagonisti e comprimari di tante trame? Oppure assenza di volontà politica, nella ricerca della verità? I magistrati dicono: la colpa è dei politici, tocca a loro far funzionare gli organismi di controllo, guidare l'attività dei servizi segreti. «Avverto un certo fastidio, ogni volta che mi ritrovo a parlare di queste cose. Mi prende una sorta di sensazione di inutilità, per il fatto di ritrovarmi a dover ripetere concetti che da anni vengono espressi, senza che si sia registrato alcun cambiamento». La premessa è di Giovanni Salvi, uno dei tre magistrati che, alla procura di Roma, si occupano soltanto di «eversione di destra». «L'argomento torna d'attualità di strage in strage e, quasi sempre, dopo una sentenza. Come se il problema riguardasse esclusivamente la magistratura. E invece io dico che il problema è politico. Anzi, più in particolare, riguarda il funzionamento della Commissione stragi. Attenzione, non è questione di persone, ma di volontà politica». Il giudice è convinto che in tutti questi anni, durante l'imperversare dello «stragismo», sia mancato il contributo determinante, se non altro alla comprensione e al giudizio politico sul fenomeno, della commissione d'inchiesta che avrebbe, invece, dovuto avere proprio il compito di offrire una «lettura unica» delle diverse trame. Operazione che, a'detta di Salvi, alla magistratura «risulta molto difficoltosa», nell'impossibilità di mantenere un filo unico, sostenuto dal «rigore logico-giudiziario, indispensabile perché una sentenza possa resistere ai vari gradi di giudizio». «Difficoltà - sostiene Salvi - determinate, oltre che dalla complessità degli scenari che il magistrato si trova davanti, anche e soprattutto dai mille inquinamenti e dalle continue interferenze cui sono sottoposti i processi». L'allusione è indirizzata ai servizi segreti e al loro ruolo nelle inchieste sulle stragi? Loris D'Ambrosio, prima alla procura di Roma, poi consulente dell'Alto commissario, ha trattato le inchieste più scottanti sul terrorismo nero. «Non mi sento di poter generalizzare. Non posso dire che dal 1969 in poi vi sia stata una congiura senza fine con la partecipazione dei servizi segreti. Posso dire di essermi imbattuto in tanti momenti eversivi». Il magistrato tira in ballo la «particolarità» dell'eversione di destra, definita «categoria a parte». «Motivazioni ideologiche deboli, militanti giovanissimi e quindi strumentalizzabili a vari livelli. Ecco, forse il dato ricorrente delle indagini sui neri è che a un certo punto si perde il filo perché le storie rimangono impastoiate in un magma dove c'è di tutto; una fascia, appena superiore alla base, che ospita sempre gli stessi personaggi alla Semerari, alla Signorelli, come Delle Chiaie; gente al limite della legalità e sospettata di frequentare ambienti legati ai servizi». D'Ambrosio chiarisce: «Facciamo l'esempio di Fioravanti. Un ragazzino killer di Gelli? Sono più portato a pensare ad una strumentalizzazione a vari livelli del terrorista e del suo gruppo. Insomma, nelle inchieste sulle stragi ci si imbatte spesso in troppi padroni e non sai mai nell'interesse di chi si muovano. I depistatori delle indagini sulla strage di Bologna, per esempio, Belmonte e Musumeci, per conto di chi agirono? Era, quello, un Sismi piduista o semplicemente avido? Il processo d'appello contro Musumeci ha avallato come possibile movente del depistaggio il desiderio degli ufficiali del Sismi di mettere le mani sulla ricompensa di 300 milioni destinata agli informatori». Impossibile, dunque, «difendersi» dalle indebite ingerenze, dagli «inquinamenti»? Secondo Giovanni Salvi bisogna distinguere tra «verità giudiziaria» e «verità politica». E' difficile far entrare nello spirito del processo una giuria popolare che non conosce i mille rivoli delle indagini, dove il filo conduttore si fa sempre più tenue. «Ma un giudizio politico doveva essere dato, un lavoro di analisi sugli anni dello stragismo doveva essere fatto. E questa è l'occasione mancata dalla Commissione stragi. E' impensabile che, una volta catturato Delle Chiaie, la prima commissione lo abbia ascoltato senza aver prima richiesto le carte, gli atti processuali; senza, in pratica, sapere cosa chiedergli. E' impensabile che l'enorme mole di materiale raccolto non sia stata catalogata, selezionata, per ricostruire ciò che è accaduto negli anni dello stragismo». Salvi conclude e addebita alla Commissione un altro fallimento. Quello di non aver dato risposte ad alcuni interrogativi: «Se c'è stato o no un disegno eversivo unico; se è vero che una struttura riservata, all'interno dei servizi di sicurezza, sia stata utilizzata con compiti istituzionali. Perché il problema non riguarda i servizi costretti ad agire su logiche separate. Riguarda le direttive politiche e la vigilanza, che deve tener conto dei pericoli insiti nell'attività sotto copertura. Altrimenti sarà difficile arrivare a processi epurati da tutto ciò che nuoce alla soluzione dell'inchiesta». Francesco La Licata E' l'immagine simbolo del processo d'appello a Bologna: io stupore dei parenti delle vittime dopo la lettura della sente ;ro;oANSA)

Luoghi citati: Bologna, Roma