«La polizia ci ha sparato addosso» di Fulvio Milone

«La polizia ci ha sparato addosso» Sul molo di Brindisi le drammatiche testimonianze dall'ultimo gulag stalinista «La polizia ci ha sparato addosso» /profughi albanesi denunciano omicidi di Stato brindisi DAL NOSTRO INVIATO «Shpeton Albania». Le rughe segnano il viso stanco di Alfred, che piange come un bambino sperduto sul molo di levante del porto di Brindisi. «Amo l'Albania», ripete tra le lacrime quel piccolo uomo sfinito, mentre intorno a lui si svolge una scena che ha del surreale: un esercito di gente lacera, sporca, ridotta allo stremo, trova comunque la forza di sorridere e addirittura di gridare: «Italia, Italia». Solo Alfred continua a piangere. «Forse perché ho capito qualcosa più degli altri: chi è costretto ad abbandonare casa e affetti non sarà mai felice. Anche se, come me, potrà dire: sono libero». Nel porto pugliese, prima sponda occidentale per i profughi albanesi, si incrociano mille storie cariche di sofferenze e umiliazioni. Davanti ad una tenda della Croce Rossa un uomo e tre donne con i capelli grigi tendono le mani verso un militare che offre camicie e vestiti puliti. Sono i fratelli Tabaku, di Durazzo. Come Alfred, anche loro riuscirono a scavalcare otto giorni fa il muro di cinta dell'ambasciata tedesca a Tirana, e a cominciare un lungo viaggio verso la speranza. I concittadini li indicano come leggende viventi. I Tabaku odiavano il regime di Enver Hoxha, al quale hanno pagato un prezzo altissimo: l'intera famiglia, compresi i genitori morti mentre erano al confino, ha trascorso complessivamente un secolo di carcere. Juli, un omaccione di 47 anni, è ansioso di raccontare: «Mio padre e mia madre li ricordo a stento. Sapemmo della loro fine dalla polizia, che non ci restituì neanche i corpi». Juli finì in galera a 18 anni. Ne è uscito a quarantacinque, appena quindici mesi fa: poco meno di un trentennio vissuto tra le pareti di una cella, con i polsi serrati per giorni in ceppi di ferro. Con una sola parentesi. «Lasciai il penitenziario nell'83, ma nell'87 fui preso di nuovo. Ebbi comunque il tempo di sentire il profumo della libertà». Di quel breve periodo trascorso a casa con la moglie Francesca, gli rimangono un ricordo struggente e una bella bambina dagli occhi color nocciola, Laura. «Ora vivremo tutti insieme. Dove andremo? In Germania, poi negli Stati Uniti dove risiedono altri due fratelli» dice Juli mentre si allontana verso il treno già pieno di profughi. Ma prima di scomparire sua sorella Nevrez, 59 anni di cui tre passati nelle galere del regime, urla l'ultima maledizione contro Hoxha, il defunto Stalin albanese. «Scrivetelo: per noi era solo il cane di Tirana». Sfetian Labani ha 28 anni e il volto scavato dalla fame. E' scalzo, e si regge a stento sulle gambe lunghe e magrissime. Sorride, ma nei suoi occhi c'è un fondo di tristezza. In Albania ha dovuto lasciare moglie e figlio, un bambino di 17 mesi. La voce quasi gli muore in gola, mentre racconta la sua storia. «Fui arrestato nel 1981 per aver tentato di fuggire dal Paese. In realtà non riuscii neanche a raggiungere il confine, perché fui bloccato dalla Sigurimi, la polizia segreta. Vuole sapere chi mi aveva denunciato? I genitori del compagno con il quale stavo scappando. Quella gente non esitò a distruggere la vita del figlio, oltre che la mia. Fui condannato a cinque anni di lavori forzati. Mi sono rovinato i polmoni in tre miniere, controllato a vista dalle guardie». Gentian, uno studente di 20 anni, non vuole che si scriva il suo cognome. Parla con rabbia dei giorni trascorsi nell'ambasciata tedesca: «Qualcuno ci ha detto che non faranno entrare altri dissidenti nella sede diplomatica. Sarebbe un disastro: per gli albanesi significherebbe la fine di ogni speranza. Nei boschi intorno a Tirana ce ne sono a centinaia, che aspettano di prendere il nostro posto». Anche Gentian riuscì a scavalcare il muro una settimana fa. «Un'esperienza allucinante. Dalla strada quelli della Sigurimi ci insultavano giorno e notte. Ci chiamavano figli di cani, traditori. Poi tentavano di blandirci, nella speranza che uscissimo dall'ambasciata. Le nostre condizioni erano disastrose: la polizia interrompeva per ore e ore l'erogazione dell'acqua, per stanarci. Qualcuno non ce l'ha fatta: i suoi.nervi non hanno retto, e, si è consegnato alle autorità albanesi. Negli ultimi giorni alcuni provocatori pagati dalla Sigurimi sono riusciti ad infiltrarsi tra i profughi. Gridavano tra la folla che i tedeschi ci avrebbero cacciati, e quindi avremmo fatto meglio a tornare sui nostri passi. Ne individuammo due, e li scaraventammo oltre il cancello». Amici per la pelle. Così si definiscono Ali Charmel, Besuik Dalipi e Agam Elmagi, che giurano di essere stati testimoni dell'omicidio di due ragazzi da parte dei poliziotti albanesi. «Li abbiamo visti con i nostri occhi. Erano armati di bastoni, e sono riusciti a prendere un bambino di otto anni e un altro di 13 che tentavano di saltare oltre il muro dell'ambasciata, mentre altri dissidenti su un'auto cercavano di sfondare i cancelli. Hanno continuato a picchiare fino a quando i due non si sono più mossi, coperti di sangue e con gli occhi sbarrati nel vuoto. Abbiamo visto anche un agente sparare a bruciapelo allo stomaco di un uomo». Altri testimoni - non si sa quanto attendibili - raccontano di sparatorie nella notte, e di due albanesi uccisi dopo essere stati rifiutati dall'amba- sciata cubana. Giovanni Radovaci, 29 anni, musicista e pittore, parla addirittura di 206 persone uccise a raffiche di mitra mentre tentavano di raggiungere la Grecia. «E' accaduto un mese fa» sostiene. I più odiati sono gli uomini della Sigurimi. «Peggio della Securitate di Ceausescu: almeno gli uomini del dittatore romeno guadagnavano bene. I nostri poliziotti sono pronti ad ammazzare per pochi spiccioli». Brindisi è immersa nell'afa pomeridiana, mentre i tre convogli della speranza diretti in Germania cominciano a muoversi lentamente lungo i binari, al limite orientale del porto. Da un finestrino un giovane mostra un piccolo anello d'argento. «Me l'ha dato mia madre quando le ho detto che sarei andato via dall'Albania. Ricordo le sue parole: Zoti te ndihmofte, Dio ti aiuti». Accanto a lui, nello scompartimento, siede Edi Garuli. «Il mio lavoro è far divertire i bambini. Ero il miglior giocoliere di Tirana. Ma lì la vita era diventata impossibile: troppa misera, e tanta oppressione. Pensi che avevo un amico al quale era vietato frequentare l'Università. Doveva studiare di nascosto. Sa perchè? Proveniva da una famiglia di intellettuali malvisti dal governo Hoxha. Ora sogno un futuro negli Stati Uniti: so che ci sono circhi splendidi». Fulvio Milone Una bambina cede alla stanchezza e si addormenta nel refettorio del campo di Restinco, dove sono alloggiati i profughi albanesi [FOTO ANSA)

Persone citate: Ceausescu, Edi Garuli, Enver Hoxha, Gentian, Giovanni Radovaci, Hoxha, Stalin