PRAGA a qualcuno Havel non piace più di Barbara Spinelli

PRAGA a qualcuno Havel non piace più Le destre e l'odio per gli ebrei nell'Europa centrale: le tensioni in Cecoslovacchia PRAGA a qualcuno Havel non piace più Gli autonomisti slovacchi sono sospettati di antisemitismo PRAGA DAL NOSTRO INVIATO Visitare Praga dopo la rivoluzione di velluto è come rivedere una vecchia conoscente che ostenta una personalità affatto nuova, e però ha non pochi tic di ieri. Che si comporta come se il passato fosse una chimera, e però è come impacciata, rallentata dalla propria biografia. I turisti che d'un tratto affollano la capitale cecoslovacca, e sommergono formicolanti largo San Venceslao e la bella piazza Staromestska, contribuiscono non poco a questa illusione ottica. Praga quest'estate 1990 è vociante, è come se avesse sciolto le chiome. In certi momenti sembra Capri, ma a prezzi stracciati. Come anguille, i turisti tedeschi o italiani ti scivolano allato e non discorrono che di questo: in quell'angolo puoi comprare vetri di Boemia a quattromila, lì presso il ponte il ristorante costa solo tre, il mini-golem di terracotta presso la sinagoga addirittura due, e via moltiplicando, addizionando, sottraendo, famelicamente focosi. Anche Praga si infuoca forse, ma non senza renitenze. Fissa l'orda di stranieri, stupefatta. Tutto è accaduto così repentinamente, che descrivere i quotidiani tumulti è difficile. Le parole si sciolgono in gola, vengono a mancare. La luce della democrazia si è accesa con tale subitaneità che devi guardare attraverso fessure. In mezzo al gran vociare estivo, si aprono vulcanici laghi di silenzio. Fortuna che gli stupefatti son tutelati dalla foto-ritratto di Vaclav Havel, accampata nelle vetrine dei negozi. Come sempre il Presidente è in maglione, porta slavati blue jeans, è scarmigliato. E' in mostra dappertutto, e ovunque esercita la sua dolce dittatura del sorriso (dolce ma ferreamente selettiva, tuttavia... un libraio scatta innervosito quando gli chiedo i romanzi di Milan Kundera, e replica pronto che no, Kundera non c'è ma perché non prende invece l'ultimo Havel?). Havel è la rivoluzione dell'89 ma anche la palingenesi del '68 interrotto. Havel non è Dubcek l'eurocomunista ma non è neppure la derisione smagata di Kundera l'emigrato, e con lui tornano pur sempre gli Anni Sessanta, questa patria dei dissidenti che oggi governano. Di domenica, giovani in blue jeans che sembrano sue riproduzioni si raggruppano per cantare davanti ai turisti le canzoni dei Beatles, o di John Lennon che negli anni bui fu simbolo di rivolta, e di fantastiche fughe interiori. Anche adesso le sue canzoni distraggono. Distraggono dalla realtà strana che è stata la rivoluzione di novembre. Rivoluzione organizzata in principio dal Kgb - ormai la gente lo sa - con il suo famoso agente che recitò la parte dello studente martire, e stramazzò addirittura sul selciato di piazza San Venceslao fingendosi morto. Rivoluzione che tuttavia si ribaltò, sfuggendo di mano ai servizi ceko-sovietici e finendo tra le braccia di Havel. Rivoluzione magnifica, e torbida. Rivoluzione che è arrivata come un ladro di notte, da fuori, simile allo sciame di turisti che adesso ascoltano i cantori domenicali e sorridono saccenti, come sorridevano una volta - quando il safari si faceva in Africa - davanti al negro che picchiettava il tamburo primitivo. Il malessere cecoslovacco lo scopri quando gratti un poco questa vernice applicata in gran fretta, e incroci certe esplosioni di rabbia, certe ferocie, certi regolamenti dei conti in quella che era la sacra, la concorde famiglia del dissenso. All'inizio era un tranquillante il linguaggio morale di Havel, i suoi appelli a amore e verità, i suoi accenni alla menzogna totalitaria che abita ciascun individuo, e che ciascuno deve estirpare con proprie mani. Ma adesso che la popolazione ha votato, l'ansiolitico non basta, troppe cose diventano incomprensibili, troppo ambigua è la traduzione pratica del pensiero haveliano sul potere degli impotenti, sulla politica che deve trasfigurarsi in a-politica: d'accordo - senti dire - il nemico è annidato dentro ciasc;ino di noi, ma questa maniera di ingurgitare l'avversario di ieri, di incorporare il passato comunista, non sarà un po' troppo timorosa, non sarà la versione politicante dell'a-politica? E come mai questo governo che continua a premiare i trasformisti dell'ultima ora? Calfa, primo ministro, era fino a ieri comunista. E così Vacek, che Havel generosamente ha ribattezzato «esperto», cui è stato affidato il ministero, cruciale per i futuri rapporti col Patto di Varsavia, della Difesa. Il vecchio nazionalismo «Non dobbiamo dar l'impressione che l'opposizione voglia andare da sola al potere», mi spiega Petruska Sustrova, fedele haveliana nel Forum democratico, e mi fa capire che comunisti non rappresentano più il pericolo numero uno: le stessa ha assistito Jan Rumi al ministero degli Interni - nel la «ripulitura» della polizia politica cecoslovacca, ù pericolo oggi è probabilmente altrove: è nel successo elettorale degli autonomisti moravi, è nel nazionalismo slovacco che torna in superficie - mi assicurano con volto clericale, fascistoide, soprattutto antisemita che aveva prima e durante l'ultima guerra. La minaccia è nel passato remoto, più che in quello prossimo: «Tira aria di pogrom antisemiti in Slovacchia», insinuano al Forum, ed ecco che alcune xenofobie del Partito nazionale slovacco (poco più del dieci per cento, alle elezioni di giugno) diventano rappresentative di tutta una regione, che chiede più autonomia. Ecco i dissidenti cattolici slovacchi sottilmente puniti per non aver mai digerito l'haveliana Charta '77, giudicata troppo di sinistra. Ecco agitato lo spauracchio del separatismo impersonato durante la guerra da Jozef Tiso, il famigerato alleato slovacco di Hitler, l'esecutore delle sue disposizioni anti-ebraiche. E' un uso della storia che Rudolf Kucera, uno dei più lucidi studiosi del Centro Europa, re¬ spinge con nettezza: «Le questioni nazionali sono una cosa, l'antisemitismo un'altra. Le prime dobbiamo imparare a risolverle democraticamente, perché ce le trasciniamo dietro dai tempi dell'impero austroungarico e non sono subito equiparabili al fascismo, corno i comunisti hanno sempre sostenuto per meglio congelare la storia delle nazioni e delle minoranze occupate. L'antisemitismo è invece un fenomeno d'altra natura, che con gli ebrei, praticamente inesistenti in Cecoslovacchia o Polonia, non ha nulla a che vedere. Ha invece a che vedere, e molto, con i mali del nostro tempo, con l'incompiutezza delle rivoluzioni democratiche appena avvenute. E' il modo patologico in cui la gente esprime il suo smarrimento di fronte ad una situazione niente affatto chiara, e checché ne dica Havel, niente affatto fondata su verità. In realtà non sappiamo dove andiamo, né quali siano i piani di Gorbaciov. La gente vede i cambiamenti, ma vede a nel?.e che questi ulti¬ mi non sono portati a termine. Resta la nomenklatura, che paralizza tuttora la resurrezione dell'iniziativa privata. Resta la polizia segreta, che Rumi ha ripulito troppo tardi, quando i pesci grossi già si erano resi latitanti e in bottega non bivaccavano che i garzoni. Restano gli ascolti telefonici, le complicità fra esercito cecoslovacco e sovietico, gli stessi soldati delì'Urss che promettono di andarsene ma non lo fanno. Di qui lo stordimento del cittadino comune, incapace di accordare le parole che sente con la realtà che vede, la Cecoslovacchia fantasticata con la Cecoslovacchia in carne ed ossa. E' questa incertezza che scatena le più svariate fantasie su presunti centri segreti, su presunti complotti internazionali: dunque ancora una volta sugli ebrei o sui massoni, sospettati da sempre di governare il mondo». E' il motivo per cui non pochi critici del governo chiedono che sia fatta infine chiarezza, sui compromessi tra Havel e i comunisti, e* non sono affatto convinti che la democratizzazione sia irreversibile, e desiderano che il Forum smetta di presentarsi come portavoce unico della società civile, e diventi quello che è: un partito politico tra gli altri, non onnicomprensivo come pretende ma socialisteggiante, soprattutto adesso che non alberga più né i democristiani di Vaclav Benda né i partitelli che son nati a desini e ai centro. Gli immigrati come schiavi «Havel dovrebbe smettere di girare il mondo come se la Cecoslovacchia fosse un faro della democrazia, e non un Paese devastato dal comunismo», commenta Ivan Lamper, del settimanale Respekt, l'ex Revolver. E nello stesso giornale Jachym Topol aggiunge che l'antisemitismo di cui si parla tanto è un'inezia rispetto alla paura che incute la piccola delinquenza, o al razzismo nei confr'jjni degli immigrati viet¬ namiti, cubani, curdi: «Sono immigrati che il comunismo ha fatto venire come schiavi, ed è un'altra eredità con cui i ceki e gli slovacchi devono fare i conti, senza mettersi a rimpiangere il vecchio ordine pubblico. Non dimentichiamo che i comunisti sono stati grandi maestri, nel razzismo come nella delinquenza: solo che la loro era delinquenza di Stato, era razzismo di Stato». Altri accusano Havel di non tollerare dissensi, di esser meno vellutato di quanto sembri; e ricordano come si irritò con i manifestanti anticomunisti di piazza San Venceslao, dopo la rivoluzione di novembre. 0 come perse la pazienza quando seppe che il deputato inglese Roger Scruton, conservatore, aveva consigliato la messa al bando del pc, in una conferenza all'Università di Brno. O come reagì alla lettera aperta di Ladislav Struska, presidente della confederazione degli ex prigionieri politici: lettera in cui Struska chiede che vengano pubblicati i protocolli della tavola rotonda fra comunisti e ex opposizione. «I protocolli non si possono pubblicare», ha replicato secco il Capo dello Stato, senza spiegare perché era tanto opportuno tacere. «In queste condizioni è assolutamente necessario che nasca un'opposizione - mi dicono a Praga - altrimenti ognuno comincerà a fare i propri interessi, nelle varie regioni, e andremo verso la jugoslavizzazione del Paese. La Cecoslovacchia non ha bisogno solo di un Presidente forte ma anche di partiti forti, di istituzioni forti». Difficile però estrarre una normale conflittualità democratica, dal magma gelatinoso che è l'ex dissenso. Per negoziare con gli autonomisti slovacchi occorrerebbe un governo forte - spiega ad esempio Kucera - ma buona parte dell'ex opposizione teorizza l'antiautoritarismo, e aborre il principio stesso di autorità. Per dar nascita al multipartitismo occorrerebbe un linguaggio politico classico, e la lingua che prevale nel Forum oscilla perennemente tra sinistrismo e unanimismo: è uno strano eloquio amicistico, moraleggiante, dietro il quale fa capolino il sogno di una società da cui discordia è bandita, di una «Nuova Democrazia» dove non ci si divide più ma ci si abbraccia in permanenza, magari sotto lo sguardo benevolo di padri-filosofi. E' l'eloquio che ha germogliato in tutta Europa sul finire degli Anni Sessanta e che ora domina in Polonia e Cecoslovacchia (domina meno in Ungheria, dove governano forze politiche più nazionali, in parte democristiane, meno legate al pensiero del '68). Nel nuovo linguaggio non ci sono Stati ma Famiglie, non federazioni europee ma Case Comuni. In famiglia il valore supremo è l'amore-verità preconizzato da Havel; non le sgradevoli lotte per il potere. Nell'eloquio familistico parole come perdono, vendetta, riconciliazione, rimpiazzano vocaboli fondatori di civiltà come giustizia, processo, e legge. In famiglia è male quel che in democrazia è del tutto normale: che l'opposizione vada «da sola al potere», senza speciali assistenti, quando alle urne ottiene la maggioranza assoluta. Che lo sconfitto resti sconfitto, e non cambi nome di battesimo per tramutarsi in vincente. Ma chissà: forse l'avversario non è avversario, forse i comunisti son morti molto viventi, una volta liberati delle scorie staliniane. Forse gli eroi del dissenso temono di perdere l'aureola che avevano, e vorrebbero apparire al tempo stesso come governo e come opposizione, come se stessi e come altri da sé. Per questo sono così impreparati a parlare di questioni nazionali, di pluripartitismo, di ricostruzione economica, di governo delle minoranze. Per questo i comunisti infiltrano con tanta efficacia i gruppetti nazionalisti in Moravia, il partito ecologista cecoslovacco, gli uffici del Forum che trattano i problemi delle nazionalità. Le fatiche di Havel non sono finite: la grande sfacchinata ancora deve cominciare. Barbara Spinelli PRAGA a qualcuno Havel non piace più Vaclav Havel. La gente dice di lui: «Dovrebbe smettere di girare il mondo come se la Cecoslovacchia fosse un faro della democrazia, e non un Paese devastato dal comunismo»