Bulgaria, parla il popolo del gulag

Bulgaria, parla il popolo del gulag Nei campi di lavoro 187 mila internati, e quasi cinquantamila le vittime Bulgaria, parla il popolo del gulag / superstiti raccontano e chiedono giustizia SOFÌA DAL NOSTRO INVIATO Sabbie dorate che il placido corso del Danubio sembra accarezzare, macchie di cespugli, più in là boschetti di un verde intenso. Vista adesso, l'isola di Belene sembra un paradiso. «Invece era un cimitero. Vede quella duna? Là dietro c'erano baracche e filo spinato. Poco più avanti, le "fosse": buche profonde quattro metri dove venivamo rinchiusi per punizione. Il cimitero era dall'altra parte. Non si è mai scoperto se fosse colpa degli inservienti turchi, che seppellivano le vittime troppo in superficie, o se dipendesse da un ordine. Ma i maiali selvatici di Belene hanno conosciuto il sapore della carne umana». Dimiter Kumanov, 61 anni, un fisico imponente, indica i luoghi con qualche esitazione, come ricostruendo una mappa della memoria. «Qui non c'è più nulla, hanno fatto sparire ogni traccia. Ma il gulag di Belene l'ho conosciuto bene. Sei anni di lavori forzati nel Campo numero due, il peggiore. Centinaia di compagni uccisi, migliaia di scomparsi...». All'indomani delle prime elezioni democratiche del dopoguerra, anche la Bulgaria comincia a scoprire una tragica storia di segregazione e di orrori. Una realtà taciuta per più di quarant'anni, ancora sepolta negli archivi del ministero degli Interni e del «KDS», la vecchia polizia segreta, ma che nelle ultime settimane comincia faticosamente ad affiorare. Trentotto «campi di lavoro», trentotto gulag attraverso i quali, dal '45 fino alla metà degli Anni Sessanta, sono passati migliaia di oppositori. «Secondo le nostre fonti, 187 mila: e fra gli internati, nell'arco di vent'anni più di 48 mila risultano le persone "scomparse". Ma sono stime per difetto. La verità si saprà solo quando, e se, qualcuno deciderà di aprire gli archivi della polizia segreta». Kumancv è tra i fondatori di un'associazione che si è pudicamente definita «Club dei perseguitati dopo il '45», e raccoglie testimonianze, mette assieme tasselli, chiede (attraverso «Demokratia», il giornale delle opposizioni) che giudici e governanti aprano inchieste, perseguano i responsabili, svelino tutte le atrocità di im passato forse ancora troppo recente. «La Bulgaria di Cervenkov e poi di Zhivkov ha continuato a tenere in piedi gulag stalinisti anche quando, nel resto del blocco sovietico, Stalin era ormai un ricordo. Da qui sono passati contadini e scienziati, preti ortodossi ed ex generali, ingegneri, studenti, comunisti scontenti ed eroi della Resistenza. Per incarcerare me, un motivo sicuramente c'era: ma altri, molti altri, sono entrati qui senza processi né sentenze». Lunin bc'ere si Nel 1949, Dimiter Kumanov era studente al primo anno di medicina. Con un gruppo di coetanei aveva rubato della dinamite: il progetto era di farla esplodere nell'ambasciata russa. «Un amico, Leon Levi, mi tradì. Finimmo in carcere in sei. Io ero minorenne. Mi condannarono a 63 anni di carcere. In tutto ho passato nei gulag 15 anni. Leon Levi invece ottenne una cattedra all'Università di Sofia». Belene, Pleven, Pazardhik, Kyustendil. Nel ricostruire la mappa dei «campi di lavoro» (che oggi appare in un volantino delle opposizioni: una Bulgaria punteggiata da teschi, uno per gulag) le peregrinazioni di Kumanov sono state preziose. «A Belene si lavorava dodici ore al giorno. Costruivamo una diga. Se qualcuno non finiva la sua quota, doveva ripetere il turno durante la notte, e non mangiava. La razione? Trecento grammi di pane, due zuppe al giorno con dentro una cipolla, mezzo cucchiaio di riso. Se si veniva sospettati di evitare il lavoro, scattava la punizione. Colpi di bastone, lunghe corse in cerchio finché la vittima cadeva sfinita. Oppure la buca. Una volta, mi ci hanno tenuto per dodici giorni...». La buca era umida, fangosa, chiusa da un masso. Dalla primavera, quando cominciava il disgelo e il livello del Danubio aumentava, il fondo si copriva d'acqua. «Si restava da soli, nel buio più assoluto, senza potersi sedere, senza cibo... Ho visto gente impazzire, uno riuscì a strangolarsi coi suoi pantaloni. Le sembrerà assurdo, ma la sola cosa che non ricordo di tutta la mia prigionia sono proprio quei dodici giorni di isolamento. Li ho come cancellati. Rammento solo le gocce d'acqua gelida che mi colavano sul viso...». Ma ci sono altri che ricordano. «A Belene c'erano cinque campi. I due più grossi contenevano ciascuno 2500 persone, gli altri poco più di mille. L'ingresso di ogni sezione era sormontato da una grande scritta che riproduceva una frase di Maxim Gorky...», racconta Grigor Danov, 62 anni, arrestato in quanto esponente del vecchio partito agrario. A Belene, lui rimase a lungo un mito. Era tra le quattro persone sopravvissute al «pontone dell'orrore». Beffardo come l'«Arbeit macht frei» dei Lager nazisti (il lavoro rendt; liberi), il motto inciso sui gulag bulgari declamava: «Chovek: tovà svuci gordo!», ossia «Uomo: quanto suona fiera questa parola!». Ma pochi metri più avanti, a Belene come a Lovech o alla vecchia miniera di Svishtov, un ordine riprodotto a caratteri cubitali riportava subito alla realtà. Una frase di Dzerjinsky, il feroce capo della Ceka, la polizia segreta sovietica, avvertiva: «Il nemico non si perdona. Si annienta». A Belene, la prima toppa di questo sistematico annientamento fu il «pontone». «Era una struttura in legno, calata nel fiume per metà. Accadde nel 1950: verso la metà di gennaio decisero di punire 35 prigionieri. E doveva essere una punizione esemplare...». Mentre racconta, Grigor Danov riesce a stento a controllare un tremito. «C'erano quindici gradi sotto zero. Ci costrinsero a entrare nel pontone, a calarci nell'acqua fino alle ginocchia. Se qualcuno tentava di appoggiarsi agli altri veniva colpito. Restammo così quattordici giorni e quattordici notti. Vedevamo gli altri morire e non potevamo far nulla per aiutarli». «A vci spmanle ca Danov deve la vita ad un altro internato, Boris Stojlov, un pugile famoso negli anni fra le due guerre: «Portandomi la ciotola con la zuppa, riuscì a lanciarmi in acqua un paio di stivali di gomma. Quando ci fecero uscire, eravamo rimasti in undici. Vidi un compagno togliersi le calze: dai piedi, la carne gli si staccò assieme con la stoffa. Alcuni furono portati all'ospedale di Svishtov. Amputarono loro chi un piede, chi una gamba... molti morirono nei giorni successivi». Ma chi era, la gente dei gulag? Dimiter Balatov, presidente dell'associazione fra gli scampati, era stato arrestato col padre Ivan e tre fratelli, tutti uccisi tranne l'ultimo, che allora aveva solo 14 anni. «Le accuse - racconta - avevano un andamento ciclico, quasi seguissero i capricci di una moda. Prima si cominciò a parlare di "atti controrivoluzionari", poi di spionaggio. Seguirono gli anni dell'at¬ teggiamento "disfattista verso le iniziative del potere popolare": bastava essersi lasciati sfuggire che, per esempio, costruire un palazzo di trenta piani in un certo quartiere era inutile. Infine (ma eravano già in pieni Anni Sessanta) entrò in voga l'accusa di "condotta degradante". Erano sufficienti i capelli un po' troppo lunghi, dei jeans attillati, una gonna corta». Bogidar Vitanov, 45 anni, fu arrestato proprio per i jeans che indossava. Tre anni a Lovesch, lavorando in una cava di pietra. «Facevano esplodere la dinamite, dalla montagna cadevano massi enormi: noi dovevamo spaccarli in blocchi da cinquanta, sessanta chili, issarli su un carrello e trascinarli a valle. Lì c'era una pressa che trasformava i massi in ghiaia. E poi bisognava portare la ghiaia fino a un treno. Venti vagoni al giorno. Se non si riempivano, erano frustate». Nedialko Ghescev aveva 21 anni quando fu arrestato: adesso ha raccolto le sue esperienze in un libro {Belene, l'isola dei dimenticati) che dopo essere uscito in Belgio promette di diventare uno dei testi-guida della «nuova» Bulgaria. «Quei gulag erano l'inferno. Avevamo il "diritto" di fare lunghe passeggiate con la schiena curva sotto un carico di mattoni o un tronco pesantissimo. Il "diritto" di camminare nel fango, di lavorare 14 ore al giorno, di vederci sparare addosso da agenti appostati dietro ogni cespuglio. C'era chi ci ordinava di andare più in là solo per consentire al commilitone di esercitarsi nel tiro a segno. Mancavano solo le camere a gas, purtroppo: almeno, tutto sarebbe finito presto». Nei ricordi dei testimoni affiorano nomi, circostanze, scene da incubo. Qualcuno ricorda la tragica fine di Snezhana Dudeva, una ragazza di Sofia arrestata perché in rapporti d'amicizia con un funzionario dell'ambasciata americana. Con lei finirono nel gulag quattro fratelli: Plamen, Gheorghi, Kiril e Stojan. Altri descrivono i festini delle guardie a Lovech, con alcool, sesso e tiro a segno sui prigionieri. La più feroce, dicono, era una sorvegliante di nome Julia, «la bella Julia». C'è chi ancora sta cercando Boris Mitev, fino al '60 sadico luogotenente nel terzo campo di Belene, sezione di lavoro 789. Dicono abbia ucciso personalmente sessanta persone. «Ci sono figli, madri che da qualche mese, dopo la caduta di Zhivkov, cominciano a rivolgersi a noi, chiedono notizie dei famigliari scomparsi anni prima», racconta Dimiter Kumanov. «Alcuni sono venuti in pellegrinaggio proprio qui sull'isola. Mi hanno chiesto delle baracche, mi hanno chiesto dove fosse il cimitero. Non ho avuto il coraggio di raccontare loro tutta la verità...». Giuseppe Zaccaria Lunghe segregazioni in buche semiallagate: c'era chi non resisteva e si dava la morte «A volte le guardie ci sparavano addosso: mancavano solo le camere a gas» rOflMHM CWAT ! La mappa dei gulag eh? gli oppositori stanno diffondendo in Binaria: un teschio per ogni campo di lavoro teggiamele iniziare": basfuggire struire uni in un tile. Infipieni Anga l'accudante". pelli un jeans attsessantarello e truna premassi inportare Venti variempivNediaanni quaso ha rain un libmenticato in Belre uno «nuova»erano l'iritto" dicon la scrico di msantissimminare ore al giaddossotro ognidi