Un principe e la tromba

Un principe e la tromba La biografia di Miles Davis Un principe e la tromba UINCY Troupe non rende un buon servigio a Miles Davis scrivendo per il maestro «Miles, autobiografia di un mi to», (Rizzoli, lire 32 mila, pagg. 432), librone che ci tiene desti per i dati che contiene ma che ci infastidisce per il linguaggio talvolta scatologico, spesso penoso (da comparsa hollywoodiana: gangsters, cowboys di serie B). E' anche forse il liguaggio dei cari, vecchi beatniks ma oggi uno che quando parla con il prossimo inizia sempre il proprio discorso con il vocativo «gente!», fa sorridere. Ma chi si esprime più così? Nemmeno il peggiore dei sindacalisti. Davis passo dopo passo. Dall'infanzia, ai primi approcci con la tromba, l'ingaggio nell'orchestra di Billy Ekstine, l'incontro con Gillespie e Parker, la nascita del bebop New York, i giorni, anzi, le notti al Minton's, poi il primo viaggio a Parigi (Juliette Greco, addio mia amata), la rivincita con il cool jazz, gli anni bruciati con la droga; il disprezzo per i critici che sono tutti bianchi (e per lo più cretini, Davis vede giusto) ma il maestro generalizza e odia tutta una razza compresi certi musicisti come Chet Baker che tratta molto duramente (forse con una punta di invidia e di gelosia). In effetti Baker nei primi Anni Cinquanta fu forse sopravvalutato dai critici che lo anteposero a Miles ma sulla distanza sarà Chet a confermarsi autentico artista. Davis oggi fa del rock, pensa alla grana, aspira a sedere alla destra di un Prince nelle poltrone della Hit Parade, Baker ha sempre fatto del jazz fino a quella maledetta notte di Amsterdam. Ne riparleranno fra cinquant'anni. Io scommetto per Chet in quanto solista, e punto su Miles come organizzatore. Chet appartiene alla razza dei Beiderbecke, delle Billie Holiday, dei Lester Young, dei Bud Powell, dei Dexter Gordon. Davis è, già agli esordi, l'uomo con il computer, uno yuppy ante litteram, un pianificatore. E' lui che rompe con Parker perché quella musica (il bebop) non era orecchiabile e non faceva presa sul grosso pubblico. Nasce così il celebre «Nonette» (Capitoli che ispirerà tutto il jazz californiano, condannando Davis nel suo ruolo di «maledetto» e gabbato. Un maledetto che ha tuttavia avuto due colpi di grazia costituendo, uno dopo l'altro, i due migliori complessi della storia del jazz, il primo con John Coltrane, Cannonball Adderley, Red Garland (Bill Evans, Wynton Kelly), Paul Chambers, Philly Joe Jones (Jimmy Cobb); il secondo con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams. Per Davis hanno suonato i più grandi solisti di tutti i tempi. Di Davis sono i più bei dischi della storia del jazz. Che si tratti di bebop o di «modale», chi vuole controllare deve rivolgersi alla ditta Davis (edizioni Capitol, Prestige, Blue Note, Columbia). Un mito che vale la pena di scoprire. Gente!: Troupe scrive come può ma Miles detta bene e ha buona memoria. E' suo il più feroce (e crediamo azzeccato) ritratto di Charlie Parker, l'amato-odiato maestro. In giro si raccontano storie inenarrabili sul servilismo di Davis nei confronti di Parker. E Troupe sa come vendicare il proprio datore di lavoro. Sono pagine crudeli, senza pietà nelle quali il «Bird» è ritratto nei suoi momenti più bassi e volgari: anche questa è cronaca. Come cronaca è quella lista lun¬ ghissima di musicisti che si facevano con 1' eroina insieme con Miles nelle cameracce di hotel, qua e là in giro per New York. Verità e non verità si mescolano, tuttavia. Quasi tutti credono che Miles Davis sia stato il modello stilistico di Chet Baker. Non è così. Per testimonianza diretta posso dire che Chet raccontava di avere avuto come ideali maestri due musicisti: Harry James e poi Freddy Webster. Nel suo libro Davis fa scrivere le stesse cose al suo fedele Troupe: Harry James e Freddy Webster anche nel passato di Miles. In effetti la vera tromba, quella che canta, che vibra, che arriva come una freccia nel cuore è quella di Harry James. Freddy Webster è invece il poeta (purtroppo esistono rari documenti della sua arte) che - con poche note, eliminando quel plateale «vibrato» dei vecchi - esprime e significa un'espressione. Questo è jazz: sentimenti per un'arte romantica. Don Byas diceva: «Io sono il Chopin del jazz», emblematica frase che racchiude tutto un mondo, un'estetica oggi obsoleta. Ancora una volta da una quindicina di anni, Miles è in prima fila. Genio ma anche opportunista, Davis si è sempre piazzato nel momento giusto. Bebopper, con Parker (all'ombra di Webster, Clark Terry e Dizzy Gillespie), coolman con Gii Evans, modale con John Coltrane, rocker appena il freejazz fa schiantare tutto un mondo e il vero jazz si disintegra sotto le martellanti mani di un Cecyl Taylor (l'uomo che non sa suonare il blues). Poco meno di un anno fa, il critico americano Stanley Crouch usciva sul «The New Republic» (quindicinale culturale di Washington) con un feroce saggio che attaccava violentemente Davis. Il «Republic» è un periodico autorevole, molto seguito e Crouch non è l'ultimo arrivato, anzi. Si legge anche questa frase, lapidaria: «Davis ha fatto della bellissima musica nella prima metà della sua vita professionale e ha rappresentato per molte persone l'artista afroamericano che non scende a compromessi, che disprezza lo Zio Tom. Poi è sceso da quello stato di grazia ed è stato apprezzato per averlo fatto. Come di solito avviene, la discesa dalla grazia è stata una forma di successo. Rendendosi conto di non potere conservare la sua posizione in prima linea nella musica moderna, di non riuscire a mantenere la sua posizione economica ed essere ancora ammirato per l'anticonformismo delle sue innovazioni, Davis ha voltato le spalle al bello per genuflettersi davanti al commerciale». Crouch drammatizza e fa un po' di retorica; inoltre si sospetta che questo articolo sia stato scritto per favorire Wynton Marsalis (un protegé di Crouch) il quale tenta una scalata al trono abbandonato da Miles. La soluzione al mistero Davis è più semplice e meno cruciale di quanto scrive Crouch. Immaginiamoci un genio che produce genialità e viene trattato come uno straccio dalla maggior parte della gente che ha intorno: giornalisti, pubblico, impresari, tutti. Un giorno scopre che musicisti di gran lunga a lui inferiori, quasi delle nullità, vengono trattati da principi solamente perché invece di inventare si adeguano all'oscillazione del gusto, alla volgarità magari, ma una volgarità miliardaria. Il gioco è fatto. Franco Mondini Miles Davis: suoi i più bei dischi della stori a del jazz

Luoghi citati: Amsterdam, Columbia, New York, Parigi, Verità, Washington