L'abito talare come simbolo di fede e la casula prêt-à-porter

L'abito talare come simbolo di fede e la casula prêt-à-porter Considerazioni sulla singolare passerella di Vicenza riservata ai nuovi modelli per religiosi e alla quale hanno partecipato diversi stilisti L'abito talare come simbolo di fede e la casula prêt-à-porter Alcuni prelati amano troppo lo sfarzo ma Gesù Cristo disse: «Il corpo vale più del vestito» Il primo a provarci con le sfilate di abiti talari fu Fellini ne «La dolce vita». Ma era una favola delle sue tipiche, anzi una caricatura, date anche le vistose misure, toraciche e no, della «modella» travestita da prete, Anita Ekberg. Ora invece (e proprio mentre l'abito talare maschile e femminile viene ribadito, ma senza troppa convinzione, come obbligatorio, e fra l'indifferenza pressoché generale) si è giunti ad un'idea mercantile e pubblicitaria quanto meno singolare e paradossale come la sfilata di Vicenza dimostra. Non che manchino anche oggi preti e religiosi esigenti, e soprattutto vescovi e responsabili religiosi, incontentabili anche a proposito del saio francescano, o con più ragione, del sostitutivo ma orripilante clergyman. Dal grado di «monsignore» in su, l'apprezzamento per un abito raffinato è ancora largamente diffuso nel clero. Dopo il Conci¬ lio, e con un recente decreto di Giovanni Paolo II, è stato ribadito l'obbligo di vestire i rispettivi abiti talari e religiosi. Si è tenuto sinceramente conto di quello che era ed è tuttora per la maggioranza della gente cristiana l'abito dei preti e dei religiosi: il segno sicuro e credibile di una scelta di fede e di vita conseguente in chi quell'abito porta. «L'abito fa il monaco, eccome!», dicono alcuni. «L'abito non fa più, per se stesso, il monaco. Anzi...», dicono ormai i più. Non fu mai facile nella storia del costume della Chiesa ridurre, semplificare, come quando dovettero decidere la «divisa» i grandi santi fondatori d'ordini ecclesiali, mentre fu facilissimo, soprattutto nelle epoche del potere ecclesiastico, gigantificare, accrescere, complicare la propria divisa fino al barocco più sfrenato. Gesù Cristo è stato il più semplice sulla questione: «Il corpo vale più del vestito». Per chi crede alle forme e ai «segni» con fede sincera, l'abito religioso può essere davvero espressione d'una fedeltà di vita. Lo fu per Ernesto Bonaiuti, il prete «modernista» privato dell'esercizio del sacerdozio per la sua eresia: la veste ecclesiastica la rimpianse sempre, la conservò nel comò, e volle essere seppellito con quella. Non lo è più, nel senso che non è più un-feticcio inviolabile, per la maggioranza ormai del clero e dei religiosi, i quali spesso si trovavano davanti allo stupore dei «buoni cristiani» che si scandalizzavano per un prete in maglietta e short, anche se stava giocando al pallone nel cortile dell'oratorio. E quasi nessuno ricorda loro la «Lettera a Diogneto», un identikit dei primi cristiani nel mondo pagano nel quale si espone il proprio essere cristiani anche nei segni e nei medi: «Vestono come tutti gli altri». Oggi solo nel Terzo Mondo, il missionario ve¬ ste come crede, come può, come capita, secondo i mezzi e le tradizioni della gente. Tonaca e talare, nella storia, a volte sono state più che corazze di fronte a persecuzioni, insulti e soprusi. Io sto per la «Lettera a Diogneto», ma ammiro anche chi resta fedele al saio, purché questo non diventi un idolo, o un'esenzione automatica dai rischi che invece tutti gli altri corrono. Credo comunque che la semplificazione di questo anomalo guardaroba verrà da sé, per forza di tempi, culture e fenomeni sociali. Circa l'iniziativa della «passerella» di Vicenza, con la «casula prèt-à-porter», mi resta soltanto una curiosità, che Krizia, Fendi, Biagiotti, Fontana dovrebbero spiegarmi: chi sono le indossatrici e gli indossatori, controfigure come logicamente dovrebbe essere, o magari veri religiosi e religiose clandestini, cioè i veri destinatari di questa industria strana d'abbigliamen¬ to? E' difficile, nel costume dei popoli, tornare indietro. E' più facile, anche nell'abbigliamento, andare avanti. Quando papa Giovanni XXIII decretò l'accorciamento della «coda» (come veniva chiamato lo strascico di porpora di alcuni metri dei cardinali), molti di essi fecero orecchio da mercante. Ma da questo alle passerelle per tutte le taglie c'è una bella differenza. O forse ciò che sostengo mi deriva dal fatto che l'unica volta che, in piena canicola estiva, anni fa, mentre, in pantaloni e maglietta viaggiavo per andare a tenere mia conferenza dei frati cappuccini, fui aggredito da un bellissimo frate somigliante a Sant'Antonio, vestito d'un saio nuovo di zecca che mi chiese un passaggio, ma appena salito, mi puntò contro la pistola e volle «tutti i soldi» (cioè le sole 15 mila lire che avevo in tasca). A me andò bene, perché dimostrando¬ gli, con una risata incosciente, che io ero un vero frate e lui un falso frate, ci guadagnai, senza colpo ferire, una pistola da consegnare ai carabinieri e un saio nuovo di zecca che ovviamente ho tenuto per me. E pensai ancora una volta che la «Lettera a Diogneto» è ancora un documento saggio. Non posso dimenticare l'opinione d'un grande vescovo che mi onorò della sua amicizia, il cardinale Michele Pellegrino. Quando lo intervistai sulla concessione del clergyman, mi sorrise mite, nel suo clergyman grigiastro e mi disse, mentre mi serviva il caffè: «Dovremmo rileggere tutti la "Lettera a Diogneto": vestono come tutti gli altri. Io, vedi - e accennò al taschino del clergyman -, ormai di rosso, eccetto che nei pontificali, non porto che questa biro per gli appunti». Nazareno Fabbretti

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