Baggio segreto: io non sono Benigni di Gian Paolo Ormezzano

Baggio segreto: io non sono Benigni Tutte le cose che i calciatori azzurri pensano delle interviste, che nessun cronista ha mai chiesto e nessun giornale ha mai pubblicato in prima pagina Baggio segreto: io non sono Benigni MARINO DAL NOSTRO INVIATO QUESTO è un tentativo, modesto, ma doveroso, di metterci dalla parte di alcuni dei calciatori azzurri che quasi ogni giorno, fra le 12 e le 13 intorno alla piscina del loro albergo di Marino quando non è mattina d'allenamento, fra le 11,45 e le 12,45 quando c'è seduta allo stadio e loro vengono beccati all'uscita dallo spogliatoio, sono intervistati (la media è di venti giornalisti, dieci microfoni, cinque telecamere per calciatore). Garantiamo che le frasi fra virgolette sono rigorosamente non dette, quindi rigorosamente vere e sincere. Franco Baresi: «Eccoli che mi aspettano, microfoni e taccuini e telecamere. Io so già cosa devo dire, io sono il buon Baresi, il veterano coraggioso, l'uomo-guida. Devo dire che il gruppo è proprio un gran bel gruppo, che non ci sono problemi di rivalità, casomai di sana concorrenza. Uno o due, i più in confidenza con me, mi chiederanno anche un paragone fra il gioco di Sacchi e quello di Vicini, nomineranno la zona. Io dirò che ogni formula ha qualcosa di molto valido. Quello là mi chiede sempre degli avversari, io gli dico sempre che rispetto quelli che conosco, perché li conosco, e quelli che non conosco, perchè non si sa mai, potrebbero sorprenderci. Lui è contento. Ma tutti sono contenti: non capisco bene il perché , ma tutti alla fine mi dicono persino grazie». Salvatore Sobillaci: «Stavolta, al primo che mi chiede un saluto speciale alla mia Sicilia gli rispondo male. Ma no, che poi non ne sono capace. Però quella è l'unica domanda alla quale non posso rispondere che decide il mister. E pensare che potrebbero farmi tante domande intelligenti, o terribili, ma si vede che sono spaventati dalla mia umiltà. Io continuo a fare l'umile, un po' perché lo sono, un po' perchè mi rende. Purché non mi chiedano di Vialli. Io ancora un anno fa sognavo di dare del tu a Vialli. Ecco, ci risiamo, gioco anch'io allo Schillaci povero, dimesso. Certo che la stampa scritta è meglio: tu dici "beh, insomma" e il giorno dopo scopri che hai parlato per almeno cento righe di giornale. Mentre in televisione parli soltanto per tre minuti e poi scopri che in realtà ha parlato sempre quello col microfono, quello che ti ha intervistato». Gianluca Vialli: «Andiamo, sono lì che mi aspettano, respirare forte tre volte, e avanti con le domande. E' interessante studiare gli inserimenti: ci sono giornalisti che fanno guizzi fantatistici per ficcare la loro domanda fra quelle degli altri. E ci sono quelli, specialmente delle radio, che stanno a sentire le domande altrui, e poi ti fanno la domanda «summa», ci infilano dentro tutte le domande precedenti più la loro che è la ciliegina: e tu non puoi rispondere riferendoti a quello che nr' già detto, perchè stoppano la registrazione e ti dicono che i loro utenti mica ascoltano le altre emittenti. Che vitaccia. La nostra con i giornalisti, voglio dire. Loro si divertono, noi invece no». Roberto Baggio: «Per quanto ancora dovrò fare il fiorentino? I giornalisti toscani sono già tutti davanti agli altri, li vedo, adesso mi chiedono notizie di amici comuni, mi parlano di mia moglie. Quando finalmente gli altri mi chiedono di Schillaci, di come mi trovo di fianco a lui, io devo fare finta che parlino soltanto della Nazionale, non anche della Juventus. Non è una gran fatica, ma è un bel disturbo. Certo che quando mi dicono che sono giovane, e che non ho ancora l'idea di come gestire la celebrità, mi prende male. Io non ce la faccio mica ad andare avanti così. Qui mi chiedono o l'imitazione di Superman, in campo, o quella di Benigni fuori campo. Non uno che mi chieda se ho mal di pancia, se vorrei avere un figlio a cui telefonare. Non uno che mi chieda di Carnevale, eppure sono io che l'ho fatto fuori. D'altronde neanche Carnevale mi chiede niente». Giancarlo Marocchi: «Un giorno o l'altro do fuori da matto. Qui giocano tutti fuorché io, e tutti mi dicono che io dovrei sempre giocare, perchè sono un calciatore universale. Però, se io dico che sono imbestialito, mi dicono che voglio fare l'Ancelotti senza averne il diritto, perché io sto all'inizio della carriera. Che poi non so come si può fare carriera, se non ti fanno gioca¬ re. Allora niente, adesso mi arrivano addosso e comincio la tiritera. Devo tenermi pronto alla chiamata, questo è il mio compito. Si vince in undici ma anche in sedici, per non dire in ventidue. Scoppio di salute, ma ci sono pure ragioni tattiche da tenere presenti. Ho bisogno di dire a uno qualunque che non ne posso più, ma di chi mi fido? Hanno tutti quanti una faccia da scoop che fa paura». Stefano Tacconi: «Venite, venite da me, io ho fiato da vendere, tanto non gioco mai, gioca sempre Zenga, che in porta grida e si agita ma sempre meno di me. Venite che Stefano ha la battuta pronta, è un bel moschettiere anticonformista. Io ormai ho il cliché, è un bel gioco, a me piace parlare, a loro piace sentirmi. Fra parlare e parare la differneza è poca, parlare ha persino una lettera in più, cosa voglio ancora dalla vita? Ho quasi tutto, adesso ho anche quello intellettuale che mi chiede quanto è profondo il pensiero di un portiere di riserva, e mi viene voglia di dirglielo in metri, centimetri e millimetri». Giuseppe Giannini: «Metà dei giornalisti è con me, metà è contro di me. Io conosco quelli contro di me, si mettono alle mia spalle e prendono appunti su cosa io dico agli amici. Sono un giocatore discusso, che ci posso fare? Adesso mi siedo lì e aspetto la domanda alla quale o non rispondo, e ci sono subito grandi interpetazioni del mio silenzio, o rispondo, e ci sono subito grandi delusioni per la mia cronica avarizia di parole. Non mi avevano detto che il calcio era così. E poi mi chiamano Principe. Ecco, quello lì è come se avesse già il fumetto di quello che sta per chiedermi: Principe, questo Mondiale è proprio la tua rivincita? Che barba, potessi appendere lui a quel punto interrogativo». Gian Paolo Ormezzano

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