Gaslini una Dynasty alla genovese di Paolo Lingua

Gaslini, una Dynasty alla genovese La storia dell'imprenditore venuto dal niente che ha lasciato miliardi e liti giudiziarie Gaslini, una Dynasty alla genovese Oleifici, banche, industrie e il grande ospedale GENOVA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE A soli undici anni, Gerolamo Gaslini, in procinto di lasciare per sempre la scuola alla «seconda tecnica», aveva già avviato, a Monza sua città natale, un discreto commercio di fra cobolli usati. Comprava e rivendeva, trattando con la disinvoltura del «monello» di Charlot cartolai adulti e clienti occasionali. «Fu per me l'unica, autentica università che mai abbia frequentato, quella della strada». Lo confessò, appena commosso, quando, ormai ultraottantenne, gli consegnarono la laurea «honoris causa» in medicina. Pure, quel riconoscimento era quello che lo inorgogliva di più. Sorrideva del laticlavio che il fascismo gli aveva elargito e del titolo nobiliare un po' pomposo datogli dai Savoia (conte di San Gerolamo, dal nome di una abbazia medievale di Quarto, la località dove sorge il celebre ospedale per hambini che porta il suo nome). Di Gerolamo Gaslini s'è tornato a parlare in questi giorni, a 26 anni dalla morte (avvenuta a 87 anni, nel 1964): il tribunale di Genova ha riconosciuto a una sua figlia naturale, Beatrice Giannina Bianchi, di 52 anni, il diritto di accedere come legittima erede a una quota dall'immenso patrimonio (valutato quasi un miliardo e mezzo nel 1949: mille miliardi di oggi). Era stato vincolato, ancor vivo Gaslini, a una Fondazione che alimenta l'ospedale. La causa durerà almeno altri 10 anni, prima della definitiva pronuncia della Cassazione, come del resto è durata 10 anni la battaglia di Beatrice Giannina Bianchi per ottenere d'essere riconosciuta figlia del capitano d'industria. A Genova questa vicenda fu tenuta nascosta a lungo. Gaslini era sempre stato un uomo libero, fantasioso e spregiudicato. Negli ultimi anni e soprattutto subito dopo la morte, anche per volontà della figlia legittima, Germana, mancata a 85 anni nel 1988, la sua figura venne avvolta in una atmosfera di misticismo e di religiosità, con un artificioso intenlo agiografico. Ma l'immagine che ne discendeva non rispondeva alla realtà. Gaslini era dotato di una personalità fortissima, ma non era un santo. Tutt'altro. Arrivò a Genova poco più che sedicenne, a lavorare in porto. A vent'anni era già imprenditore in proprio, titolare d'una indù-, stria di cappelli di feltro per il pubblico popolare, che non poteva permettersi i «Borsalino». Invase l'Argentina. Poi riconvertì quegli utili, sempre prima della guerra del '15-'18, acquistando in tutta Italia piccoli oleifici. Ottenne un brevetto che introduceva una tecnica di raffinazione rivoluzionaria e, pur restando nel settore dell'olio d'oliva, divenne un monopolista nel campo, ancora poco conosciuto, degli olii di semi. Alla fine del primo conflitto mondiale era già un uomo ricchissimo e potente: oltre gli olei- fici, possedeva una banca a Milano, industrie alimentari come la Wamar e la Arrigoni, tenute, vaste proprietà immobiliari e aveva installato a Zurigo un ufficio finanziario che controllava, con rendiconti quotidiani, il mercato della valuta. Fondò con Valletta la «Genepesca», organizzando la relativa flotta. Lavorava in maniera singolare. I suoi più stretti collaboratori andavano alle 5 del mattino in corso Italia, di fronte al mare, nella imponente villa progettata da Gino Coppedè e appartenuta alla ambasciata giapponese: vi aveva risieduto anche Hirohito quando era principe ereditario. Gaslini, tarchiato, forte, il naso pronunciato, ormai padrone del dialetto genovese, stava accanto a un enorme biliardo sul quale, in perfetto ordine, erano distese le cartelle con le relazioni più aggiornate sulle numerose attività imprenditoriali del gruppo. Alle sei sapeva già tutto a memoria e interrogava gli altri, mettendoli in imbarazzo. Dormiva pochissimo. Viaggiava sempre in treno, di notte, per riparmiare tempo, smaltendo posta e pratiche, appoggiate ai braccioli di felpa. Una volta, in una fabbrica, rimase bloccato in ascensore. Si sedette sul fondo e, tirate fuori le pratiche dalla cartella, prese appunti per una paio d'ore, sinché non vennero a liberarlo. Dal treno, controllava di notte i suoi stabilimenti e la leggenda vuole che s'infuriasse se scorgeva troppe luci accese. Investiva cifre immense, ma conservava, in scatole di cartone, spaghi e lucchetti. Non fumava, ma fiutava ta¬ bacco. Alle spalle del leggendario biliardo, appendeva i suoi fazzoletti in tela ruvida ad asciugare, appesi a una corda. Ospiti e dipendenti (con i quali era anche generoso) dovevano non farci caso. Indossò una sola volta l'orbace, il 15 maggio 1938, quando Mussolini inaugurò l'ospedale. In settembre, a buon conto, organizzò una seconda inaugurazione, in borghese, ospite d'onore la principessa Maria José, già in odor di fronda contro il regime. Con Mussolini ebbe un comportamento spregiudicato. Per aver mano libera nei suoi affari usò, con la diplomazia, la tattica della sorpresa. Oltre alla gigantesca opera filantropica legata all'ospedale, acquistò, facendo valere il diritto di prelazione rispetto a un miliardario america¬ no, la «Pietà Palestrina» di Michelangelo per 35 milioni (a metà degli Anni Trenta). Rovesciò (anche questa è leggenda) una valigetta di banconote sulla scrivania del Duce per finanziare il restauro dell' «Ara Pacis» di Augusto. Acquistò incunaboli e preziose pergamene e le regalò all'Università di Genova. Al momento dell'inaugurazione, all'ingresso dell'ospedale, venne installata una incredibile statua che rappresentava una bimba vestita da piccola italiana cui Mussolini, emblematicamente, restituiva la salute con una carezza. Il 26 luglio 1943, Gasimi la fece rimuovere e fondere con la fiamma ossidrica. Durante la Resistenza, finanziò alcune formazioni partigiane, usando come corriere un suo dirigente che aveva fatto la marcia su Roma nel 1922 ed era noto come un fascista sfegatato. Pure, nel 1945 a Liberazione avvenuta, dovette nascondersi: il Cln voleva arrestarlo, perché compromesso con il regime. Gaslini fece sapere a un dirigente del pei, suo vecchio amico, che era in grado di contribuire in maniera determinante a rifornire di beni alimentari Genova e altre città del Nord, ridotte alla fame. Evitò l'arresto, il processo di epurazione e il sequestro dei beni. Non andava al cinema, non ascoltava la musica, leggeva rapidamente i giornali, non conosceva lussi, né divertimenti: si concedeva, ogni, estate, un mese a Bormio, in Valtellina. Però, insieme alla moglie e alla figlia, portava con sé, offrendo loro il soggiorno in albergo, due segretarie «volontarie». In omaggio alle ferie si alzava alle sei, un'ora più tardi. I grandi industriali e finanzieri di Genova non lo amavano e lo considerarono sempre un «foresto». Erano infastiditi per lo spazio che occupava un self made man che modificava di continuo gli investimenti e le iniziative, sprezzando la politica della rendita di posizione. A causa di questa non sopita gelosia, ancor oggi si sogghigna, nei salotti ((bene» di Genova, sulle disavventure postume dei Gaslini. Si rievocano le «piazzate» di Maria Clotilde Bianchi in Biagini, la vistosa signora che ebbe con il «senatore» la tormentata relazione dalla quale nacque Beatrice Giannina. La donna improvvisava, con la bimba per mano, rumorosi sit-in dinanzi alla villa. I collaboratori dell'industriale raccontano sottovoce di assegni, donativi e vitalizi. Poi, dopo il 1964, la guerra dura e spietata tra 1' «illegittima» Beatrice e la contessina Germana, che mai l'ha voluta incontrare, né ha mai ammesso, sul filo dell'assurdo, la sua esistenza. Sul letto di morte, sibilò ai fedelissimi «Quella là non deve mai mettere piede nella villa e nell'ospedale». Gli avvocati della fondazione hanno ricorso in appello: affermano che vinceranno, alla fine, perché quando fu costituita la Fondazione, i figli illegittimi non riconosciuti erano esclusi dall'asse ereditario. La moglie di Gaslini, Lorenza Celotto e la figlia Germana rinunciarono con atto notarile alla loro eredità. Solo nel 1975 i figli naturali vennero assimilati ai legittimi, e su questa innovazione ha fatto perno la decisione del tribunale di Genova. Ma può la legge essere applicata retroattivamente? Questo è il dilemma che dovranno dirimere prima la corte d'appello e poi la Cassazione. Non a caso l'arcivescovo di Genova, cardinale Giovanni Canestri, chiamato alla presidenza della Fondazione dopo la morte di Germana ha preteso, prima di entrare in carica, secondo il testamento di Gerolamo Gaslini, che si mutasse lo statuto e il suo ruolo fosse puramente onorario. Paolo Lingua Il senatore Gerolamo Gaslini nel 1950, fra la moglie Lorenza Celotto e la figlia Germana