Droga: più amore invece della galera

Droga: più amore invece della galera Solidarietà a don Ciotti e a don Mazzi Droga: più amore invece della galera Per rendere di fatto superata e anche pericolosa la nuova legge contro la droga basterebbe riflettere sul vincolo che essapone a chiunque ospiti un drogato, comprese le comunità di recupero, di denunziarlo all'autorità. La colpevolizzazione del drogato quanto del produttore e dèlio spacciatore pone sicuramente un carico ulteriore sia sulle famiglie che sui tossicodipendenti. Questa è una legge contro la droga, ma soprattutto contro chi la consuma, e le disquisizioni sulla quantità «modica» o «giornaliera» a questo punto appaiono fra il grottesco e l'irresponsabile. E'per questo che, in coscienza, come uomo e come cristiano, sento il bisogno e il dovere di rinnovare a don Luigi Ciotti e a don Enzo Mazzi — due fra i molti altri che fanno, invece di discutere — la mia solidarietà nel rifiutare la penalizzazione del drogato. Penalizzare il drogato, senza distinzioni e gradi chiarificanti, dimostra che la droga e il drogato — una sostanza chimica e una persona umana — sono valutati, per il legislatore, identici nel reato e quanto a pericolosità. La polemica su questo articolo della nuova legge è destinata a durare a lungo, ma purtroppo nessuno si illude di venirne a capo in breve tempo, dopo tutte le dolenti «doglie del parto» che la «nuova» legge ha avuto prima di raggiungere l'approvazione. Essa dimostra il fallimento delle intenzioni astratte, dei rimorsi tardivi, dei buoni propositi inconsistenti sia della famiglia che della società, oltre che delle istituzioni ospedaliere e delle stesse comunità d'accoglienza. Queste poi, di fatto, sono state promosse «bracci esecutivi» della prepotente impotenza di un'istituzione che privilegia in fretta e senza distinzioni chiare la pena invece dell'impegno al recupero. Favorendo la denunzia, la nuova legge riduce, se addirittura non vanifica in partenza, anche uno dei punti più giusti e validi che essa contiene (e per fortuna non è il solo). Si tratta del punto in cui in essa sipreve- dono ed auspicano, come riconosce don Mazzi, anche «servizi alternativi alle comunità, strutture che io chiamo intermedie, luoghi aperti di accoglienza dove il tossicodipendente possa rimanere per brevi periodi di tempo (una settimana o solamente tre o quattro ore) per cercare di capire, magari per ritrovare un po' di gioia di vivere, luoghi che invoglino a rimanere più che a scappare». Ma anche con questa possibilità di scelta, nello scenario che la nuova legge precisa, quale fiducia e sicurezza può avere il drogato — la vittima — sapendo che tutti, anche fuori delle comunità vere e proprie, hanno il diritto e il dovere di denunziarlo, e fargli perdere, per mano della polizia, i documenti civili e sociali, cioè la propria identità, già incrinata, o già infranta, per il fatto d'essere una «vittima», ma braccata come «colpevole»? Una domanda inevitabile nasce da questa facoltà di denunzia (e proprio da parte di chi il drogato lo sta curando e recuperando): la galera non causerà un aggravarsi ulteriore della solitudine, della rabbia, della disperazione nel tossicodipendente? Bisogna stare attenti, so¬ prattutto il legislatore, anche ad una possibile «trappola» crudele: cioè il vedere la soluzione d'una metastasi come la droga soltanto perché si è perfezionata la chiarezza del problema e del disastro nella cultura di questi anni. So dell'umanità che Ciotti, padre Eligio, don Gelmini, Muccioli e quasi tutti gli altri «recuperanti» dei tossicodipendenti mettono al primo posto nella difficile terapia necessaria. Con la denunzia penale invece che con più uomini e strutture adeguate, si raggiungono forse le condizioni ingannevoli d'una società, come dice don Mazzi citando Cioran, per cui «il declino d'un popolo coincide col massimo di lucidità collettiva». Anche la lotta alla droga ha senso se si conduce realmente per salvare il drogato e in lui la stessa società. A responsabilizzare il drogato si può e si deve pensare dopo, non prima d'aver fatto l'impossibile, Stato e strutture, per salvarlo con l'amicizia, la fiducia, l'amore. «Questa — afferma don Mazzi — è una guerra che non si vince mai al primo scontro. Guai però anche a perdere la speranza». Nazareno Fabbretti Don Luigi Ciotti che da anni si batte contro la droga