Un perdente di successo di Donata Gianeri

Un perdente di successo Per il grande attore toscano il teatro è morto: «Oggi circola troppo denaro e ci sono troppi equivoci» Un perdente di successo Giorgio Albertazzi e l'autocritica Ed eccolo qui, il maledetto toscano, più aggressivo e sarcastico che mai. Perché Giorgio Albertazzi è abituato a passare tra le fiamme e uscirne indenne, come una salamandra. Così com'è abituato a passare, continuamente, dalla polvere agli altari: si direbbe, anzi, provi gusto a offrire di volta in volta il meglio o il peggio di sé perché questo appaga la sua voglia di stupire, di far sensazione. Uno che, come tutti i fiorentini, si farebbe uccidere, per amor di battuta. Perciò non se ne sta mai zitto, quando magari potrebbe farlo: ancor meno, quando sarebbe utile che lo facesse. «Mi creda: sono il re dei fraintesi. Ho quasi paura a parlare. Ma ciò che va detto, va detto: voglio ricordare, poiché si tratta di un giornale torinese, che l'Università di Torino si era assunta con me un impegno preciso che mi ha pubblicamente revocato. Con un atto di potere, meglio, di violenza. Un ostracismo vero e proprio, che esula da ogni concetto di democrazia: e che mi sembra oggi un anacronismo culturale. Comunque, verrò a Torino in autunno e considero la vertenza ancora aperta». — Per amor di Dio, Albertazzi, lasci perdere: stendiamo un pietoso velo su quel che è stato. D'altronde, se l'è voluto lei. «Giusto; ma perché? Perché non sono un sepolcro imbiancato, ma uno che vive problematicamente la propria vita e ne af¬ fronta le conseguenze. Ho anche il difetto di fidarmi degli altri; ma proprio in questa occasione ho potuto misurare a cosa possono portare le parole usate senza cautela, per esempio da uno come me, che non fa certo la politica dell'espressione». — «Le parole sono indecenti» lo dice Hofmannsthal: e lei dovrebbe saperlo, visto che ha diretto L'uomo diffìcile per la televisione, anni fa. «Certo che lo so: non a caso sono abituato a esprimermi per paradossi cosa che dovrebbe servire a indicare molto più nettamente la propria opinione. Ma non sempre si viene capiti». — Non mi sembra, comunque, che la sua carriera abbia risentito delle sue intemperanze verbali. Né del suo discusso passato. «Affatto: ho ricevuto tante lettere di solidarietà. Mi hanno offerto le direzioni degli Stabili di mezza Italia; ma ho rifiutato perché temevo volessero giubilare la mia trasgressività. Certo, ho attraversato un momento difficile: quand'ero ancora l'altro Albertazzi, cioè quello schiacciato dal peso delle polemiche, dovevo interpretare le Memorie di Adriano e Scaparro mi è stato di grandissimo aiuto spingendomi ad affrontare il pubblico proprio nel momento in cui volevo fuggirlo. E c'è stato questo incredibile, commoventissimo transfert che mi ha scaricato ed ha coinvolto duemila spettatori ogni se¬ ra. Un successo». — E col successo ha ritrovato se stesso oppure sono rimaste in lei delle ferite? «Vivaddio sono rimaste: queste sono cose che lasciano ferite insanabili, ma costruttive, nel senso che mi hanno messo in guardia sui pericoli rappresentanti dai mass-media. Ho deciso, per esempio, di rilasciare pochissime interviste: questa, lo scriva, è l'ultima che concedo per tutto l'anno. Perché quando comincio a parlare, non mi controllo, ho istinti reattivi molto vivaci». — Diciamo pure che è un attaccabrighe: si è persino permesso di criticare Ronconi, durante la trasmissione di Costanzo. «Io non ho mai criticato Ronconi che è una persona per cui nutro la massima stima: abbiamo persino dei progetti insieme, che spero vadano in porto, prima o poi. Lo considero un gran ricercatore e un grandissimo regista: l'unico in grado di dirigere uno Stabile, in Italia. Sia però chiaro che non parteciperei mai a uno spettacolo, fosse anche firmato da Dio in persona, in cui il cambiamento di scena dura un'ora e mezzo». — Lei, Albertazzi, dovrebbe provare a tagliarsi un pezzetto di lingua. «Chi direbbe queste cose, se lo facessi? Il fatto è che ci siamo prefissi la professionalità dell'attore, ma abbiamo perso di vista la creatività, mentre le due cose devono andar di pari passo. Oggi circola troppo denaro e circolano troppi equivoci per cui il teatro si trasforma, spesso, in una cialtronata. E il pubblico in platea si annoia, sbadiglia, dorme. Mi creda: il teatro è morto». — Questo, scusi, me lo avrà già detto mille volte. Non si capisce, però, perché lei si accanisca tanto intorno a un cadavere. «Non è vero, io continuo a non farlo, il teatro: voglio dire, quello serio, di repertorio. Faccio altre cose: Svenimenti di Cechov suonato quasi fosse Mozarth, oppure la voce recitante ne La follia di Orlando, a Verona. L'8 luglio, per l'apertura del Festival di Salerno, interpreterò da solo L'Histoirè du Soldat di Strawinskij con l'accompagnamento di sette strumenti solisti. E nella stagione prossima c'è un progetto con Ardenzi che mi rivedrà all'Alfieri di Torino insieme ad Anna Proclemer: una sorta di revival». — O di amarcord: a che punto è oggi, con se stesso? «Mi sento come ieri nel senso che gli anni, per me, non sono passati: sono gli altri che ti segnano U tempo. Se medito su me stesso capisco che la cosa più importante non è certo il teatro, ma la vita, la mia posizione di uomo, nel mondo. Che è poi sempre la stessa: quella di un perdente di successo». Donata Gianeri Giorgio Albertazzi. «Il teatro oggi è una cialtronata ed il pubblico si addormenta in platea»

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