Ricomiciano da VENEZIA

NEZIA NEZIA zioni, nel cambiamento efficace del Paese». Dall'altra parte della barricata, fra gli sconfitti, circolano rabbia, indignazione, desiderio di smobilitare. Una passione è comune: mettere sotto accusa la campagna stampa contro l'Expo. «Una campagna odiosa e faziosa», esclama Alberto Abruzzese, sociologo delle comunicazioni di massa, favorevole all'Expo («La proposta di candidarci per ottenere l'Expo non voleva dire fare l'Expo, ma appunto era solo una proposta, una scommessa, un'occasione per verificare se l'Expo fosse fattibile nel Veneto e per risolvere i problemi della città e della regione»). Perché dunque «odiosa e faziosa», la stampa? «Perché non ha mai affrontato i problemi reali, non ha mai detto in che consisteva la proposta sull'Expo». Continua: «Un simile com¬ portamento si spiega con quattro motivi. Perché l'Expo è sempre stata avversata dai conservatori: penso alla polemica contro la Tour Eiffel, e la Tour Eiffel adesso sono tutti contenti che ci sia. Perché da noi ogni iniziativa scade a livello di mercato politico, di rivalità personali. Perché siamo incapaci nella gestione ordinaria e straordinaria del territorio. E perché amiamo la retorica: ai giornali non è parso vero di erigersi a eroi del cosiddetto senso comune, a salvatori della patria. Risultato: si sono inventati una sollevazione popolare e abbiamo dato un'immagine disastrosa all'estero: pavidi, incoerenti, culturalmente poveri». Quasi offeso e animato da tentazioni aventiniane è il sociologo Giuseppe De Rita. Ha collaborato al progetto per l'Expo fin dall'inizio, tre anni fa, individuandone anche il tema di fondo: «La costruzione dell'equilibrio nel sistema Terra». Sibila: «E' stata una delle cose più ignobili, questo linciaggio. Per la prima volta ho avuto paura di vivere in un Paese che in due settimane distrugge un'idea senza nessun ragionamento, ma con una valanga di impotenza. E' stata la sagra del nobile genericismo». Si ricorda che anche il Parlamento ha dimostrato di voler rifiutare l'Expo. Commenta: «Penso ai miei amici democristiani che hanno sottoscritto il no. Ci hanno detto di firmare: così mi hanno confessato. Non sapevano di che si trattasse realmente. Davvero finisce male, questa vicenda. Non si è discusso di nulla, solo della pipì sui monumenti e dei 60 ipotetici milioni di visitatori». Lei non si rimprovera nulla? «Noi del comitato scientifico del consorzio per l'Expo ci rimproveriamo di avere sottovalutato le reazioni negative e preconcette, e di avere sopravvalutato il senso di responsabilità del governo, che con il suo voltafaccia ha fatto una figura da peracottaro, tale da andarsi a vergognare». Perché non avete divulgato abbastanza le vostre proposte? «Per pudore istituzionale, per correttezza. Perché non toccava a noi fare informazione. Noi eravamo la mano del governo, noi abbiamo agito su richiesta del sindaco di Venezia e della Regione Veneto. Avevamo pronto da 20 giorni un Libro Bianco su tutta questa storia, con le nostre idee. Non l'abbiamo presentato per i motivi che ho detto. Lo presenteremo però a giorni. E per ottobre organizziamo un grande convegno a Venezia su questi temi». E adesso che cosa farete, a parte Libri Bianchi e convegni? «Vogliamo chiuderci nel rancore? La mia reazione emotiva sarebbe proprio questa: io ho lavorato per tre anni, voi non mi avete neanche letto e mi avete trattato da Attila che vuol distruggere Venezia; adesso sbrigatevela voi, Visentini e sindaco Casellari, e voialtri senatori della de e del pei, e voialtri intellettuali che avete firmato i nobili appelli». Vi ritirate? «Sarebbe una reazione pericolosissima. Sarebbe un'ulteriore spaccatura, un ulteriore degrado per Venezia, se lasciassimo campo libero ai nostri avversari: loro hanno semplicemente vinto e non faranno nulla, perché non hanno idee e pensano solo che bisogna fare qualcosa». Eppure progetti concreti ci sono. Per esempio quelli del gruppo di Cacciari, dell'Istituto Gramsci. «In effetti il progetto del Gramsci è l'unico alternativo a quello nostro del Consorzio Expo 2000. Ma loro vedono solo Venezia e il suo rilancio nella produzione di servizi culturali, mentre noi ripensiamo tutto il territorio della vecchia Serenissima, puntiamo sulla compattezza dell'intero Veneto: Venezia da sola non ce la può fare, con i suoi 70 mila abitanti». Vi ritirate, alla fine, o no? «La mia impressione è che la nostra maggioranza dirà di restare, di continuare a discutere». Come pensate di evitare la ricaduta nella paralisi politica e operativa? Non c'è più l'Expo come eventuale occasione forte per agire. Proporrete un Alto Commissariato, un'Agenzia per Venezia? «Il problema non è solo Venezia, ma tutta l'area nord-orientale. Con la nuova Europa dell'Est il Veneto diventerà uno dei più grandi bacini di sviluppo del mondo: quest'area va attrezzata adeguatamente. Se potessi mi candiderei a presiedere io un'Agenzia o un Alto Commissariato. Mi divertirei. Sono vent'anni che lavoro su Venezia. Ma quest'ipotesi va contro una cultura nata proprio con l'Expo: il rifiuto di ogni emergenza. E' sufficiente il Comune, si dice. Basta la Regione, basta il governo, si assicura. Ma in vent'anni che cosa hanno fatto?». E allora? «Allora si deve continuare a proporre, a dare battaglia. Io sono un credente, credo nei segni. L'altro ieri andavo in auto da don Picchi per una chiacchierata con i suoi tossicodipendenti e mi dicevo: Ma guarda un po', io che sono sempre stato vittorioso, adesso mi sento uno sconfitto. Non parlare più di mezz'ora, mi hanno raccomandato. Ho parlato per 30 minuti, ma dopo i ragazzi mi hanno tenuto lì due ore e mezza con le loro domande. Me ne vado, ho detto alla fine. Mi hanno applaudito per due minuti e alcuni piangevano. Io ho guardato in terra e veniva da piangere anche a me». «Ho capito - conclude De Rita - che il senso del mio lavoro, cioè del fare ricerca, non è nella vittoria o nella sconfitta, ma nella qualità delle cose che si fanno. E' nell'impegno civile, nel restare fedeli a quello che si fa. Le firme, quelli che firmano, sono invece puro effimero culturale. Finito il problema, finiscono le firme. E' il pericolo di questa società: non si è più fedeli alla ricerca reale e profonda. C'è il problema di riaffermarla, questa cultura della ricerca, che è poi quella dell'impresa, del fare: essa è più forte perché è costante nel tempo e ha più speranza». Vittorio Gregotti lancia un appello a lavorare in comune. De Rita dice che non si sottrarrà al proprio impegno. Potrebbero persino cercare insieme le soluzioni per Venezia e il Veneto. Le conseguenze della guerra sull'Expo sono solo all'inizio. Claudio Altarocca