Trovatore bello e senz'anima

Trionfo di Pavarotti nell'opera di Verdi al Maggio, diretta da Zubin Mehta Trionfo di Pavarotti nell'opera di Verdi al Maggio, diretta da Zubin Mehta Trovatore bello e senz'anima Scarso rilievo al respiro drammatico Bravi Zancanaro e Antonella Banaudi Torino, concerto all'Auditorium «Musiche per lo sport» nel De Sabota sinfonico il trionfo della gioventù FIRENZE. Per il 53° Maggio Fiorentino è andato in scena al Comunale «Il trovatore», spettacolo in comproduzione con il Festival Verdi di Parma e il Teatro Regio di Torino, direttore Zubin Mehta, regista Giuliano Montaldo e Luciano Pavarotti punta di diamante della serata: che è stata festosissima, fra ospiti eminenti, autorità e sponsor, a conclusione di una giornata campale per una Firenze esuberante di mostre, inaugurazioni e convegni; il tutto, naturalmente, sulla consueta e pittoresca marea di turisti. Anche questo «Trovatore», in fondo, era per ospiti e turisti eminenti, nella sua stereotipia senza voli o affermazioni particolari; non che si debba pensare la celebre opera verdiana come problematica, ma in tutto lo spettacolo c'era qualcosa di confezionato, di reverente all'idea divulgata di melodramma italiano, che toglieva forza ed emozione al pur ragguardevolissimo livello tecnico messo in atto. Le figurine Liebig sono una bella cosa e il Kitsch pure, ma più a parlarne che a vederseli davanti. Talvolta si aveva l'impressione di assistere a un'opera italiana in qualche teatro di New York o di Chicago, a una ipostasi, una idea platonica di opera italiana vista di lontano: quindi un po' freddina, come tutte le idee platoniche che si rispettino. L'impegno che ci mette Zubin Mehta è ammirevole, ma i risultati sono più buoni battuta per battuta, pagina per pagina che nella strategia drammatica complessiva; tutto accentua e sottolinea con la sua grande musicalità, ma a prezzo di slarghi, ritardandi, enfatizzazioni che appiattiscono il gioco teatrale di luci e d'ombre e diminuiscono l'effetto risolutivo dei colpi di scena; inoltre, specie nei primi due atti, tra orchestra e palcoscenico c'era qualche preminenza indebita di uno o dell'altro elemento. Giuliano Montaldo firma una regìa fedele al libretto e alla gestualità tradizionale, con un felice spunto nella sensibilità materna di Azucena quando raccoglie e stringe i suoi quattro stracci come cullasse una creaturina; anche la centralità della figura, in «Stride la vampa», è degna dell'unico vero personaggio dell'opera; ma il risultato complessivo è compromesso dai limiti dell'interprete, Dolora Zajik, una cantante con belle qualità espressive ma distribuite in modo diseguale nei vari registri; inoltre, con serie difficoltà nella chiarezza della pronuncia, essenziale in un personaggio che è tutto consapevolezza, coscienza tragica. Anche se Manrico non è propriamente il protagonista del «Trovatore», la classe di Luciano Pavarotti lo fa grandeggiare agevolmente su tutti: la proverbiale generosità del nostro grande tenore è senza macchia; canta ogni volta come se fosse al suo esordio, per impegno e concentrazione, e modifica la sua vena squisitamente lirica assumendo anche i toni veementi e iracondi della drammaticità verdiana; la sua pronuncia è immacolata, non si perde una sillaba di quanto canta e questa qualità ripaga ampiamente degli accorciamenti nelle prove più atletiche, come in «Di quella pira», regina delle cabalette. Buona la prova di Antonella Banaudi nei panni di Leonora; dopo qualche tituban- za iniziale, è arrivata in gran forma a «D'amor sull'ali rose» e a «Tu vedrai che amore in terra», momenti fra i più sentiti della serata, anche perché il grande tableau del «Miserere» ha acceso al meglio l'incisività di Metha. Positivo il Conte di luna di Giorgio Zancanaro, anche come figura: un Conte di luna più giovane di quanto si veda di solito, un credibile rivale del fratello. Le scene di Luciano Ricceri, di un pittoresco medioeva)e che rasenta volutamente l'oleografia, sono un vaso ideale per la tipicità melodrammatica cui lo spettacolo si adegua: ogive, vessilli e atri muscosi abbondano a dovere in una prospettiva da libro illustrato, con risultati particolarmente riusciti nella scena dell'accampamento. Applausi per tutti, compreso il coro istruito da Roberto Gabbiani, e un trionfo personale per Pavarotti e Zubin Mehta. Luciano Pavarotti in un momento del Giorgio Pestelli TORINO. Musiche per lo sport: con questo titolo l'Orchestra sinfonica della Rai e il Comune di Torino hanno voluto offrire alla cittadinanza un concerto che servisse come momento d'incontro e di riflessione prima dell'inizio dei Mondiali di calcio. L'idea è stata ottima e dimostra, ancora una volta, come l'orchestra sinfonica torinese, da quando Emilio Pozzi è direttore della sede regionale della Rai, non se ne stia isolata nella sua torre d'avorio ma intervenga sovente come interlocutrice attiva nella vita sociale della città. Fatto utilissimo per esaltarne la funzione pubblica che alcuni, con eccezionale lungimiranza, vorrebbero dimenticare sostenendo che due orchestre per Torino sono troppe: al che si fa osservare che, non dico a Londra o a Parigi ma, per esempio, a Varsavia, ce ne sono almeno cinque di primo livello solo per la musica sinfonica e da camera, più orchestra d'opera, orchestra d'operetta e innumerevoli altri complessi minori. Fatta questa premessa e riaffermata la nostra devozione alla realtà e alla storia dell'Orchestra della Rai di Torino segnaliamo il brillante concerto eseguito l'altra sera all'Auditorium dopo un breve discorso del sindaco. Sul podio era il maestro Arthur Fagen, una bacchetta autorevole ed energica che mira ad una definizione generale del pezzo, più che alla cura dei singoli particolari, ma plasma il discorso con chiarezza e tensione notevole: il che basta, naturalmente, per tenere desta l'attenzione degli ascoltatori che l'altra sera si sono goduti la rara esecuzione dello «Trovatore» a Firenze, spettacolo senza voli o affermazioni particolari Forse cambierà nome il programma di Raitre spiritoso «Pacific 231», il capolavoro di Honneger che descrive il viaggio d'una locomotiva e «Rugby», movimento sinfonico liberamente ispirato ai fantasiosi movimenti dello sport omonimo. L'interesse maggiore del programma s'accentrava però nel poema sinfonico «Juventus» che Victor De Sabata compose nel 1918. Il titolo non c'entra con la squadra di calcio, come qualcuno potrebbe credere, bensì con un'idea un po' dannunziana della giovinezza articolata in quattro momenti: «il balzo gioioso delle aspirazioni», «l'amore», «la tregua dolorosa», «il ritorno trionfale alla vita». Vi si ritrovano le caratteristiche fisse delle musiche composte dai grandi direttori d'orchestra: detto in poche parole, un'arte dell'orchestrazione che non conosce segreti. Sul piano stilistico, «Juventus» è un chiaro derivato straussiano: ma al turgore degli effetti sinfonici unisce alcune oasi di canto che rimandano sovente in modo smaccato alla melodiosità dell'opera italiana. Il guaio, non catastrofico ma abbastanza compromettente sul piano dell'originalità, è che i due aspetti non si fondono, restando accostati nel loro abile eclettismo, come l'acqua e l'olio, senza compromettere, tuttavia, la gradevolezza di questo slanciato poema della gioventù. Concludeva la serata la famosa «Sinfonia dal Nuovo Mondo» di Dvorak che nella sua freschezza ritmica e melodica è giunta opportuna a sottolineare il carattere festivo della serata, suggellata dagli applausi calorosi del folto pubblico. lp. gali